Come nasce un fascista: al Vascello la Prima di Microclima

Alessia Cristofanilli racconta il fallimento generazionale di una famiglia dove i figli abbracciano l'autoritarismo per reazione

Microclina - di Alessia Cristofanilli con Federico Gatti, Sylvia Milton, Francesco Morelli - Ph. Simone Galli - recensione di Alessia de Antoniis
Microclina - di Alessia Cristofanilli con Federico Gatti, Sylvia Milton, Francesco Morelli - Ph. Simone Galli
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25 Settembre 2025 - 17.44


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di Alessia de Antoniis

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La stagione del Teatro Vascello di Roma è iniziata con un debutto assoluto: “Microclima” scritto e diretto da Alessia Cristofanilli. In scena Federico Gatti, Sylvia Milton, Francesco Morelli

C’è qualcosa di profondamente perturbante nel vedere una famiglia implodere sotto il peso delle proprie contraddizioni mentre un po’ di piante assistono mute al disastro (“Primo settembre, mattina. In questa casa viviamo 5-6 umani. 5 e un po’, per la precisione. E 138 vegetali”). Microclima, nella sua forma ibrida di teatro-documento filtrato dalla trascrizione automatica, ci restituisce un affresco domestico dove la crisi è insieme privata e politica, linguistica ed esistenziale.

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L’opera attraversa un territorio domestico, dove la banalizzazione del disagio psicologico è ridotto a questione biochimica, e chiude con la voce feroce di un quindicenne che demolisce l’utopia genitoriale definendola “anacronistica”. Tra questi estremi si dipana un racconto straniante che amplifica il senso di un mondo che sta cadendo a pezzi; dove anche la lingua si disintegra come il tessuto sociale, familiare, generazionale.

Al centro della scena-abitazione, invasa da una vegetazione che ricorda più una serra che una casa, si muovono i fantasmi di una generazione che ha creduto nei “valori”, che ha fatto figli per motivi grotteschi (il primo figlio per amore, il secondo per senso civico, il terzo per distrazione e il quarto…per l’inverno). Il padre, intellettuale fallito che caga fuori dal vaso, che mette la X sulla casella sbagliata, è il ritratto impietoso di un’intera classe che ha visto naufragare le proprie utopie.

La casa-microcosmo diventa claustrofobica metafora della crisi nazionale: qui convivono precarietà economica, ansie, dibattito politico e il fantasma di un futuro autoritario che i figli sembrano già abbracciare. Il ragazzo che dichiara di essere “pronto a rinunciare ad alcune libertà” per avere “una guida forte” è il più terrificante dei personaggi: il fallimento pedagogico di una generazione.

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È però nella traduzione scenica che l’opera perde gran parte della sua forza. La regia di Cristofanilli sceglie un andamento a temperatura costante che non restituisce la febbre del testo: poche variazioni di ritmo, quadri statici che non accumulano tensione.

La scenografia firmata da Eleonora Ticca lavora su segni evocativi: telai vuoti che simulano porte e finestre, una scala che conduce a un altrove mai mostrato, una vasca da bagno incorniciata da tende rosa. L’habitat, invaso da piante ornamentali e oggetti quotidiani abbandonati, si trasforma in una giungla domestica, dove la natura appare più viva degli esseri umani e i residui della vita familiare restituiscono un’immagine di precarietà e collasso. È un’idea potente che però, in scena, resta più decorativa che drammaturgica.

Anche le luci (di Chiara Patriarca) disegnano quadri eleganti ma statici: dal verde sospeso notturno che enfatizza la vegetazione, al rosso intimo e violento che accende la vasca da bagno, fino al blu freddo e alienante che appiattisce i corpi. Tre registri visivi che non costruiscono però una progressione drammaturgica, ma piuttosto un microclima scenico uniforme.

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Il nodo principale è la voce. Molte battute di Sylvia Milton non arrivano oltre le prime file, con una dizione che trasforma il dialogo familiare in soliloquio privato. L’effetto “parlo per me” compromette non solo la comprensione ma anche la musica di un testo che vive di ritmo e precisione linguistica. Gli interpreti rimangono imbrigliati in un tono medio che appiattisce, creando paradossalmente una quinta parete: un muro di incomunicabilità tra palco e sala che replica quello della famiglia in scena.

L’eccezione è nel j’accuse finale del figlio – Francesco Morelli – nell’ultimo quadro: lì lo spettacolo finalmente punge e formula la domanda che lo attraversa: perché un giovane, oggi, arriva a desiderare l’autorità, fino a flirtare con il fascismo? È il momento in cui politica e biografia si toccano davvero, quando la voce squarcia il vetro appannato della rappresentazione per dire la sua verità feroce sui genitori nostalgici di una collettività che non esiste più.

La famiglia che vediamo è il ritratto spietato di un’Italia che non sa più comunicare con se stessa, dove il padre sogna ancora utopie, mentre il figlio si prepara ad “esercitare uno degli ultimi diritti che mi rimane” per voltare pagina definitivamente. “Microclima” è un’opera che, se arrivasse nitida al pubblico, con tagli a passaggi ridondanti e maggiori variazioni di tono, potrebbe dire di più sulla condizione contemporanea. Se poi l’intenzione era mostrare l’apatia di una generazione, il rischio è che a risultare apatico sia l’intero spettacolo.

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Microclima è una produzione Fragile Spazio, Fondazione Friedrich-Ebert-Stiftung, in collaborazione con La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello

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