di Alessia de Antoniis
Al Tropea Film Festival il premio per il miglior lungometraggio è andato a In viaggio con Lei di Gianluca Gargano, un’opera intensa girata in Calabria con il sostegno della Calabria Film Commission: «Abbiamo attraversato tutta la Calabria, girando il film in dodici giorni. Non è stato facile: raccontare otto anni di vita in così poco tempo è stata una sfida enorme, che mi ha costretto a scrivere una sceneggiatura in cui ognuno parlava con la propria voce reale».
La pellicola racconta il percorso di una ragazza trans alla scoperta di sé e del mondo femminile, intrecciando storie di dolore e rinascita, identità e resistenza. Presentato come un film ma accolto come testimonianza di vita reale, In viaggio con Lei ha conquistato critica e pubblico. «È un film dove c’è tanto di me – spiega Gargano – inevitabilmente entro dentro le storie che racconto. Non parlo dall’esterno, ma come qualcuno che ha vissuto dolori, paure, speranze. È questo che rende il film autentico».
Un’opera che corre sul filo tra testimonianza e finzione. «Io lo chiamo Cinema del Reale. Dentro ci sono storie di carcere, di dolore, di resistenza, di amore. Non c’è distinzione sociale o di genere che tenga: il percorso umano di ognuno attraversa questi capitoli. Credo che senza l’amore vero, autentico, non ci sia possibilità di salvezza».
A Tropea il regista ha incontrato anche gli studenti delle scuole superiori, trasformando la proiezione in un dialogo diretto. «Porto spesso il cinema nelle scuole, perché lì incontro vite vere. Chiedo ai ragazzi di scrivere in forma anonima la propria storia e inevitabilmente emergono esperienze difficili. Dare voce a quelle vite significa dare dignità. In viaggio con Lei serve proprio a questo: far capire che le storie raccontate sono le storie di ciascuno di noi».
Ha chiesto agli studenti se avessero mai immaginato la propria vita tra dieci o vent’anni. Perché?
Perché pochissimi lo fanno. Eppure, come dice Francesca nel film, se qualcuno mi avesse detto da giovane come sarebbe andata la mia vita, gli avrei riso in faccia. Nessuno può prevedere. È per questo che il cinema nelle scuole è importante: aiuta a immaginarsi un futuro, a pensarsi dentro un cammino fatto di amore, dolore, resistenza.
Ha rimproverato i ragazzi perché durante la proiezione usavano i cellulari…
Sì, perché sono un demone, il peggiore dei demoni. Li portano lontani dalla realtà. Io non dico di non usare la tecnologia: serve per studiare, informarsi, crescere. Ma usarla solo per distrarsi è un rischio enorme. Bisogna tornare a vivere davvero, non solo dietro uno schermo.
C’è una frase che mi ha colpito: “Affronti solo ciò che sai di poter sopportare”. È potentissima, perché ribalta l’idea della disgrazia: non ti capita qualcosa perché sei sfortunato, ma perché hai la forza per affrontarla…
Questa frase l’ha detta davvero una delle protagoniste. Perché lei si chiedeva: perché proprio a me? E la risposta era: perché io posso affrontarlo. Pensate a un bambino che a cinque anni soffre perché non si riconosce nel corpo maschile. Una cosa apparentemente piccola — il colore rosa — può diventare un disagio enorme, fino a generare tristezza profonda. Ma è da lì che nasce anche la possibilità di resistere, di trovare la forza. Ho raccontato la vita di queste donne e ragazze con rispetto, cercando di restituire la loro capacità di resistenza.
Il padre di Lei, che affronta la transizione di genere della figlia, è la figura più tenera, prigioniero di una cultura antica, del “chissà cosa dirà la gente”…
È incapace di comprenderla fino in fondo, ma resta accanto a lei: ed è già un atto d’amore. Intrappolato in un contesto culturale che lo limita, non può condividere pienamente il cammino della figlia, ma alla fine diventa colui che la accompagna in questo viaggio. Non va condannato: la sua fatica fa parte della storia, e riconoscerla significa restituire verità e complessità al rapporto tra genitori e figli.
Il film intreccia più storie, dalla donna imprenditrice minacciata dalla mafia fino alla vita carceraria. Perché questa coralità?
Perché la vita non è mai una sola voce. Ho scritto una sceneggiatura in cui ogni personaggio parla come nella realtà: ognuno porta un pezzo di sé. Ci sono le donne in carcere, ad esempio. In Italia le detenute non superano il 5%, eppure le carceri sono pensate per gli uomini: strutture, regole, organizzazione. È un mondo invisibile, dove il teatro e il cinema possono aprire spiragli.
E proprio il teatro ha un ruolo fondamentale anche per lei…
Il teatro mi ha insegnato a togliere le maschere. A diciannove anni facevo teatro sperimentale: lì ho capito che ognuno di noi recita ogni giorno e che il teatro può restituirti a te stesso. Credo dovrebbe essere insegnato nelle scuole. E anche in carcere ha effetti straordinari: riduce la recidiva, restituisce dignità.
Qual è il messaggio che vorrebbe restasse ai ragazzi di Tropea?
Che qualunque fiore voi siate, sboccerete. Non lasciatevi condizionare dai ruoli imposti: “sei maschio e giochi con le pistole, sei femmina e cucini”. Sono gabbie. Siate liberi, usate la tecnologia non per distrarvi, ma per crescere. E, se serve, educate i vostri genitori a guardare la realtà con occhi nuovi.
Argomenti: Cinema