di Rock Reynolds
È stato uno dei misteri meglio custoditi, un enigma su cui nemmeno la morte ha del tutto fatto luce: dove si nascondeva Josef Mengele, il medico che ad Auschwitz aveva fatto tremare le file dei prigionieri (ebrei, rom o semplici dissidenti e oppositori del regime) quando, sfiniti, scendevano dai treni dell’infamia e attendevano di conoscere la loro sorte? Proprio al medico delle SS spettava l’ultima parola e un suo sguardo poteva significare una condanna capitale immediata mediante le camere a gas o, quando si indispettiva, un colpo di pistola a bruciapelo, oppure la possibilità di vivere ancora per qualche tempo, ammesso che quella all’interno del famigerato campo di sterminio potesse definirsi vita.
Nascondere Mengele (Einaudi, traduzione di Sara Cavarero, pagg 313, euro 19) della giornalista brasiliana Betina Anton traccia una succinta quanto lucida parabola della vita di quello che fu ribattezzato “l’angelo della morte”, concentrandosi più diffusamente sugli anni vissuti da esule, o meglio, da fuggiasco, in Sudamerica, e su come la cerchia che lo nascose e protesse riuscì nell’intento, malgrado fosse uno degli uomini più ricercati del pianeta.
Forse, è bene cominciare dalla fine, come in molte storie classiche. L’uomo il cui solo nome aveva fatto venire brividi di terrore a schiere di ebrei e rom e la cui freddezza era diventata quasi leggendaria, morì di ictus nel 1979 mentre faceva una banalissima nuotata nell’oceano, a pochi metri dalla costa, nella regione di San Paolo del Brasile. L’America del Sud l’aveva raggiunta nel 1949, avvalendosi del sostegno finanziario e logistico della sua famiglia e di una serie di figure vicine, se non proprio contigue, al regime nazista, fiancheggiatori e nostalgici che in America Latina avevano trovato un ambiente favorevole, grazie a governi spesso più che solidali con Hitler e i suoi adepti.
Betina Anton fa piazza pulita di una serie di luoghi comuni, come l’esistenza di un’organizzazione chiamata “Odessa” e resa celebre da numerosi romanzi e film: una simile struttura segreta non c’è mai stata, mentre acclarata è la collaborazione di numerosi prelati vaticani così come di politici e funzionari ideologicamente vicini all’estrema Destra. Per di più, nei primi, caotici anni del dopoguerra, la stessa determinazione degli Stati Uniti – potenza vincitrice che controllava buona parte del territorio tedesco – nel perseguire i criminali nazisti rei delle peggiori nefandezze nella storia dell’umanità vacillò non poco sotto i colpi della nuova dottrina politica americana, più interessata ad arginare l’avanzata dell’Unione Sovietica e del comunismo che a fare realmente giustizia: i risultati di tale atteggiamento si riverberano tuttora sulla politica di alcune nazioni, a partire dall’Italia, nella quale rimasero ai vertici dei ministeri e degli enti più essenziali figure che il Fascismo lo avevano reso possibile e che, di certo, non avevano cambiato politicamente idea. Insomma, le maglie della rete alleata che avrebbero dovuto rendere impossibile ai gerarchi nazisti e persino a figure di grado (ma non malvagità) inferiore di sottrarsi alla giustizia erano più lasche del dovuto. Mengele ne approfittò abbondantemente e il resto, come talvolta succede, lo fece una concatenazione di casualità a lui favorevoli.
L’angelo della morte era sbarcato prima in Argentina – dove addirittura aveva vissuto sotto il nome di José Mengele, sentendosi protetto – poi in Paraguay – dove il regime del dittatore Alfredo Stroessner stava dando platealmente asilo a molti nazisti in fuga – e, per finire, nel 1960, aveva trovato una sistemazione in Brasile, paese che stava per finire nelle mani di una spietata giunta militare di destra, rendendo così meno agevole il lavoro di chi intendeva portare il medico nazista davanti a una corte di giustizia. Va detto che tale circostanza non sarebbe bastata per dissuadere il Mossad, che, proprio in quell’anno, inscenò una spettacolare operazione che condusse alla cattura di Adolf Eichmann, ideologo della “soluzione finale”, in Argentina e al suo rocambolesco trasferimento in Israele, dove sarebbe stato processato e condannato a morte nel 1962. La vicenda Eichmann e altre catture illustri segnarono la vita sudamericana di Mengele, terrorizzato di finire a sua volta nelle mani dei servizi segreti israeliani. Ma, anche grazie a plateali errori e a decisioni politiche contingenti, Mengele sarebbe riuscito a eludere la cattura e il processo.
Le storie raccapriccianti narrate dai sopravvissuti all’Olocausto restano una testimonianza imperitura di quanto l’uomo sia capace di perdere il senso della realtà e di commettere nefandezze e atrocità. I racconti sul sadismo e la freddezza di Mengele non mancano. A differenziarlo da molti criminali di guerra nazisti è soprattutto il fatto che fosse un insigne “scienziato” e che tale si sentisse: gli esperimenti da lui condotti sui gemelli – una vera e propria ossessione – sulle donne incinte, su nanismo, gigantismo ed eterocromia in nome della difesa ed esaltazione della razza ariana, una estremizzazione della di per sé malsana eugenetica, oggi sono ritenuti pseudoscienza, ridicoli se non si portassero appresso un indicibile carico di sofferenze. Quell’uomo dall’aria non propriamente tedesca, con un vistoso spazio tra i due incisivi, sempre impeccabile nella sua uniforme, a cui spettava la decisione ultima tra la vita e la morte, talvolta mostrava una sorta di bonomia destinata a spegnersi rapidamente agli occhi di chi ne subiva le scelte. D’altra parte, quale bonomia potrebbe nascondersi nella mente di un medico che, contravvenendo al giuramento di Ippocrate e ai più elementari principi del sentire umano, costringeva le sue cavie a immergersi nell’acqua bollente e poi nell’acqua gelida per testarne la resistenza oppure iniettava sostanze tossiche nel loro corpo per produrre i risultati sperati?
Mengele si riteneva uno scienziato, un figlio dell’ideologia nazista e, in quanto tale, non aveva particolari remore, anche se non mancano testimonianze della sua determinazione nel “proteggere” le sue cavie: a conti fatti, non si trattava di empatia bensì di utilitarismo professionale.
Eppure, chi lo conobbe negli anni della fuga sudamericana ce ne fornisce un ritratto sconcertante: per la famiglia che gli diede asilo, riparo e persino affetto negli ultimi anni di vita, Mengele fu uno “zio”, un uomo buono dalle conversazioni interessanti; per altri, una personalità strana, incline alle arrabbiature e propenso a esprimere vedute estremamente razziste. Il quadro che emerge è, comunque, quello di un uomo depresso e costantemente sul chi vive. D’altra parte, oltre alla cattura di Eichmann, si faceva un gran parlare di altri gerarchi nazisti sul punto di essere consegnati alla giustizia: di Martin Bormann, segretario personale di Hitler, per esempio, si erano perse le tracce nel 1945 subito dopo il suicidio del fuhrer, quando aveva abbandonato il bunker sotto le bombe sovietiche. Si erano diffuse numerose teorie sulla sua presunta fuga mentre un test del DNA sui suoi resti avrebbe dimostrato che Bormann era morto quello stesso giorno. E le ipotesi sulla fuga e sulla caccia di questo o quel gerarca si erano moltiplicate, rendendo ancora più fosca l’atmosfera.
Persino le operazioni di esumazione del corpo di Mengele quando, nel 1985, le autorità tedesche trovarono le prove della sua morte e del conseguente esame autoptico non furono esenti da difficoltà e controversie: Mengele era stato frettolosamente sepolto in un cimitero locale sotto falso nome. Paradosso nel paradosso, alcuni ufficiali di polizia e funzionari coinvolti nelle operazioni avevano svolto un ruolo attivo nella repressione attuata dalla giunta militare brasiliana e il medico legale sarebbe stato accusato di aver falsificato l’autopsia di un dissidente pestato a morte dalla polizia per scagionarla.
Quanto sta succedendo nel mondo oggi ci dice chiaramente che la sacrosanta tutela della memoria non basta più, che le vittime rischiano di trasformarsi in carnefici e che la genesi del male non è un arcano sovrannaturale, ma qualcosa che ha basi concretissime.