di Alessia de Antoniis
Nel sistema audiovisivo europeo, dove il documentario si muove tra industria culturale e strumento civile, Rai Documentari si presenta al MIA con una visione rinnovata. La direzione di Luigi Del Plavignano, subentrato a Fabrizio Zappi, punta su un’espansione qualitativa e strategica del genere, con l’obiettivo di consolidare la centralità del racconto del reale nel servizio pubblico.
“Il nostro compito è trasformare ogni documentario in uno strumento di educazione al senso civico e di conoscenza delle diversità”, ha detto Del Plavignano. “Non si tratta di intrattenimento, ma di una forma di cittadinanza audiovisiva.”
Dal servizio pubblico all’intelligenza collettiva
Il nuovo corso non cancella l’eredità dei palinsesti passati, ma la rilancia in chiave sistemica. Se la fase di Zappi ha imposto il documentario sulle reti generaliste, quella di Del Plavignano ne amplia l’ambizione culturale e produttiva: “Non basta raccontare i fatti, serve costruire fiducia e interpretare le sfide del presente con la profondità del racconto.”
La strategia editoriale prevede un duplice asse: il rafforzamento del daytime, con prodotti capaci di dialogare con il pubblico generalista senza perdere identità autoriale, e l’apertura verso linguaggi universali, in grado di superare i confini nazionali.
Fabio Mancini, commissioning editor, ha definito il percorso “un equilibrio tra indipendenza e coerenza di rete”, con l’obiettivo di riportare al centro “una televisione che osserva, non solo spiega”.
Tra le priorità: ridurre il minutaggio per il racconto crime, potenziare i titoli biografici e sportivi, e strutturare una programmazione “che non si fermi al palinsesto ma ne interpreti la funzione pubblica”. La parola chiave è accessibilità: contenuti capaci di parlare a un pubblico ampio, senza rinunciare alla complessità dei temi.
Giovani, tecnologia, sostenibilità: le nuove frontiere del racconto
Nelle linee illustrate da Del Plavignano emerge una chiara attenzione alle generazioni più giovani, considerate “un mistero da raccontare, non da studiare”. La sfida è ritradurre in forma documentaria le questioni che definiscono la contemporaneità: clima, diritti, lavoro, partecipazione politica.
Accanto al racconto sociale, cresce l’interesse per la ricerca scientifica, la sostenibilità e l’innovazione tecnologica. Temi “apparentemente complessi”, ma centrali per comprendere il presente e restituire “il volto umano dell’innovazione”, ha detto il direttore.
Un modello di co-produzione europea
Sul fronte industriale, Silvia De Felice ha confermato la vocazione internazionale della struttura: dalle collaborazioni con Arte e France Télévisions a nuovi dialoghi con BBC e PBS.
Il successo di titoli come Il portiere di notte di Liliana Cavani o The Match (coproduzione italo-francese) segna la strada di un’integrazione europea dei servizi pubblici, “non come opzione, ma come condizione di sopravvivenza del documentario”, come ha sottolineato Caroline Béhar di France Télévisions.
Rai Documentari entra così nel network delle televisioni pubbliche europee con un duplice obiettivo: sostenere l’industria indipendente italiana e rendere competitivo il prodotto nazionale sui mercati esteri. Le co-produzioni internazionali restano centrali, ma – come ha ricordato De Felice – “ogni progetto straniero deve coinvolgere un produttore italiano, per costruire un ponte reale tra economie e culture”.
Trasparenza, pluralismo e la domanda che ha attraversato la sala
Il momento più interessante del panel è arrivato quando un produttore britannico della BBC ha preso la parola per chiedere quanto la Rai sia davvero libera di trattare temi politicamente sensibili.
Ha ricordato come nel Regno Unito i documentari “scomodi” siano incoraggiati dal servizio pubblico, non frenati, e ha domandato se in Italia, dove “tutti parlano del controllo politico sulla televisione”, esista ancora spazio per una libertà editoriale piena.
La domanda, esplicita, argomentata e accolta da un applauso spontaneo del pubblico, ha messo al centro uno degli attuali nodi strutturali del servizio pubblico italiano: la difficoltà di affrontare temi “sensibili” senza ricadere in prudenza istituzionale o auto-censura.
La risposta di Luigi Del Plavignano è apparsa più difensiva che risolutiva. Ha scelto di spostare il discorso dal piano politico a quello tecnico, parlando di “capacità di articolare un palinsesto che permetta di approfondire i temi anche attraverso talk o speciali giornalistici”.
Un modo elegantemente evasivo per eludere il cuore della questione. Per dire che la libertà c’è, ma va mediata, incasellata, tradotta in formato. Risposta che da un lato ha sovrapposto il lavoro del documentarista con quello del giornalista, dall’altro ha trattato lo spettatore come una sorta di infante al quale spiegare ciò che, evidentemente, non è in grado di comprendere da solo.
Fabio Mancini ha poi tentato di ricomporre il tono, evocando il “lavoro collegiale” e la pluralità di voci che oggi animerebbero Rai Documentari. Ma la sensazione, tra i presenti, è rimasta sospesa: che il pluralismo, in Rai, sia oggi più una promessa che una prassi.
Un ecosistema culturale, non solo televisivo
La visione di Del Plavignano è quella di una Rai Documentari come infrastruttura culturale, capace di generare valore sociale oltre che televisivo. “Non è nostalgia del passato, ma costruzione del futuro – ha concluso -. Le storie devono illuminare le sfide di oggi e offrire strumenti per capirle. Solo così il documentario potrà tornare a essere ciò che è sempre stato: una forma di conoscenza collettiva.”