Couture di Alice Winocour alla Festa del Cinema di Roma
Top

Couture di Alice Winocour alla Festa del Cinema di Roma

Angelina Jolie in una interpretazione intima. Un film che prova a scucire l’immagine della moda e del corpo femminile, ma finisce per restare sospeso tra empatia e rarefazione

Couture di Alice Winocour alla Festa del Cinema di Roma
Alice Winocour
Preroll

Alessia de Antoniis Modifica articolo

19 Ottobre 2025 - 12.07


ATF

di Alessia de Antoniis

C’è un momento, in Couture di Alice Winocour, in cui tutto tace. Angelina Jolie, nei panni di Maxine, una regista americana chiamata a girare un corto per la Paris Fashion Week, siede nella sala d’attesa di un oncologo. Accanto a lei, una donna francese più anziana (Aurore Clément) aspetta lo stesso intervento di mastectomia. Si parlano appena, ma basta poco: il silenzio tra loro vale più di qualsiasi dialogo. È lì che il film trova il suo cuore, quando abbandona il rumore dei flash e si concede all’intimità, alla fragilità condivisa.

Questo è Couture al suo meglio, quando Winocour abbandona il caos sparpagliato della fashion week e si concentra sull’intimo, sul viscerale, sul reale. Quando diventa un film sui corpi: come li usiamo, li maltrattiamo, li ripariamo e, a volte, li perdiamo.

Winocour intreccia tre storie femminili durante la settimana della moda parigina. Maxine (Jolie) è una regista di culto, separata, madre distratta e stanca, che riceve una diagnosi di tumore mentre gira un film per una grande maison (il riflesso degli specchi tradisce Chanel, ma non viene mai nominata). Ada (Anyier Anei), studentessa sudanese in farmacia, è una diciottenne appena catapultata nel sistema, fragile e ipnotica. Angèle (Ella Rumpf), truccatrice freelance e aspirante scrittrice, osserva tutto e lo registra in silenzio, coprendo con il fondotinta i lividi e le ferite delle modelle.

Il titolo originale francese, Coutures – “cuciture” – allude a un gesto di riparazione: unire lembi separati, rimettere insieme ciò che si è lacerato. Ma qui le cuciture non sempre tengono. Winocour ha un materiale vivo tra le mani – il corpo, la malattia, la sorellanza – ma lo tratta con un pudore che a volte diventa distanza. È come se un film pieno di emozioni avesse scelto di restare tiepido, quando avrebbe potuto bruciare.

Leggi anche:  In arrivo "Torino Encounters" al Museo del Cinema

La malattia di Maxine, e la paura che la accompagna, sono il centro magnetico del film. Jolie, che nel 2013 si è sottoposta a una doppia mastectomia preventiva dopo aver scoperto di portare il gene BRCA1, attinge alla propria biografia con una misura che commuove.


Winocour sovrappone le tracce rosse della biopsia di Maxine ai manichini coperti di nastro nel laboratorio di moda: la malattia e la creazione, la carne e il tessuto, entrambe cose da rammendare.

Eppure, là dove la regista potrebbe affondare nel dramma, preferisce trattenere. Il suo cinema è fatto di gesti minimi e pudore, ma qui la sottrazione diventa anestesia: tutto resta elegante, calibrato, senza rischio.

Il corpo come lavoro, la cura come colpa

Dalla crisi di Maxine nasce una riflessione più ampia, che attraversa tutte le protagoniste del film: la cultura della produttività femminile, quel meccanismo sottile che spinge le donne, e in particolare quelle che vivono di creatività, a misurare il proprio valore in termini di efficienza, non di presenza.


Maxine, incapace di fermarsi anche davanti a una diagnosi di cancro, incarna una malattia più sociale che fisica: l’idea che il corpo sia sacrificabile, che la sopravvivenza venga dopo il lavoro.

Winocour non lo dichiara mai apertamente: lo lascia emergere per accumulo, come una ferita che si apre a poco a poco.


C’è Angèle, che copre i piedi sanguinanti delle modelle perché possano continuare a sfilare; Ada, che si torce una caviglia e la immerge in un secchiello di ghiaccio destinato allo champagne di una festa; Maxine, che cerca un contatto fisico con il suo direttore della fotografia come se il desiderio fosse un modo per riappropriarsi del corpo prima che la malattia glielo tolga.

Leggi anche:  Grazia Deledda, in uscita il film riscatto sulla scrittrice Nobel

È qui che l’ambientazione nel mondo della moda trova il suo senso più profondo: un’industria costruita sui corpi delle donne: mostrati, manipolati, corretti, distrutti; ma che Winocour filma con un rispetto insolito.
Non c’è la crudeltà che ci si aspetterebbe: niente disturbi alimentari, niente rivalità velenose, nessuna “ostentazione del male”. Al contrario, il film racconta un’altra forma di radicalità: la solidarietà.

Le modelle si aiutano, si ascoltano. Ada impara a camminare grazie alle colleghe, Angèle trucca le loro ferite, Maxine trova conforto in una sconosciuta che diventa, per un istante, sorella. La cura, qui, è un atto politico, un modo di opporsi al sistema che ti vuole produttiva anche quando sei spezzata.

Winocour orchestra queste scene con grazia visiva – la fotografia di André Chemetoff cattura il caos della sfilata e la calma del dolore con la stessa poesia – ma la sua regia resta trattenuta, quasi timorosa di abbandonarsi.
È come se la regista avesse paura di “sporcarsi” con l’emozione e così, distribuendo il racconto tra tre figure che non si incontrano mai davvero, finisce per diluire l’impatto.


Di Maxine ci importa profondamente. Di Ada siamo curiosi. Di Angèle vorremmo sapere molto di più. Ma le tre linee restano parallele, mai cucite davvero in un unico abito.

La regista sembra voler ribaltare il cliché della moda come arena di vanità e trasformarla in un laboratorio di sopravvivenza. Il problema è che, nel farlo, smussa ogni asperità: non c’è rabbia, né desiderio, né vera vertigine. Tutto resta bello, ma immobile.

Il climax visivo arriva con la sfilata finale: un set all’aperto, tra vento e pioggia, in una foresta evocata come un incubo di Alexander McQueen. Gli abiti si gonfiano, i corpi vacillano, la natura si ribella. È la scena più cinematografica e insieme la più concettuale: la catarsi che non scioglie davvero nulla.

Leggi anche:  Un film in sala: l’arte di staccare dal mondo


La pioggia lava tutto, ma non purifica. Le tre storie restano slegate, cucite con un filo troppo sottile per reggere il peso dell’emozione.

Jolie è magnifica nella vulnerabilità. Non cerca la compassione, non ostenta la sofferenza. È uno sguardo che si abbassa, una voce che si spezza, un corpo che non ha più la certezza di appartenersi.
Accanto a lei, Louis Garrel porta calore e leggerezza, quasi a ricordare che il desiderio può ancora essere una forma di resistenza.

C’è una battuta che attraversa il film come una domanda inevasa: “Pensi che siamo responsabili di ciò che ci accade?”. Detta così, sembra filosofia da caffè; pronunciata da Jolie, diventa un atto d’accusa contro il senso di colpa che accompagna la malattia e, più in generale, l’essere donna.

Couture non è un film sbagliato, ma un film incompiuto: delicato, sincero, eppure inafferrabile.
Winocour cuce addosso a Jolie un personaggio che ha il peso della vita vera, ma lascia che il resto scivoli via come seta non trattenuta. È un cinema che guarda da vicino, ma non tocca mai davvero.

Nel titolo c’è già la sua contraddizione: couture, l’arte del creare; coutures, le cuciture che chiudono le ferite.
Il film vive in quello spazio intermedio, dove la bellezza non basta più e il dolore resta senza forma. Un’opera da ammirare, più che da sentire. E forse, in questo, la sua più grande fragilità.

Native

Articoli correlati