Alla Festa del Cinema “Nino”: tre giorni per imparare a vivere
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Alla Festa del Cinema “Nino”: tre giorni per imparare a vivere

Il debutto di Pauline Loquès è un atto di grazia cinematografica, un film che scava nel dolore con la leggerezza del respiro e la forza del silenzio

Théodore Pellerin - Nino - di Pauline Loquès - Festa del Cinema di Roma - recensione di Alessia de Antoniis
Théodore Pellerin - Nino - di Pauline Loquès
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Alessia de Antoniis Modifica articolo

22 Ottobre 2025 - 10.19


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di Alessia de Antoniis

Alla Festa del Cinema di Roma, l’esordio alla regia di Pauline Loquès, Nino, è un’opera prima sorprendentemente matura, capace di affrontare la fragilità con pudore, lucidità e uno sguardo privo di sentimentalismi. Un “road movie” interiore che si sottrae con eleganza ai cliché del “film sulla malattia”; un ritratto universale della fragilità umana e della resistenza attraverso la leggerezza.

Loquès sceglie il difficile percorso della sottrazione. Invece di spettacolarizzare il dramma di una diagnosi di cancro alla laringe, la regista lo inquadra con la freddezza quasi burocratica di una comunicazione impersonale – “C’è un nuovo software, e sì, non eravate stato informato.” – Da quel momento, Nino (Théodore Pellerin) è sospeso in un limbo di tre giorni, un conto alla rovescia prima dell’inizio della chemioterapia.

Tre giorni in cui perde le chiavi di casa: un gesto freudiano o forse un segno: non può più rientrare nel luogo da cui veniva.
Così comincia un vagabondare per una Parigi fredda, livida, intrisa di blu, città che diventa lo specchio della sua incredulità. Nino cammina come dentro se stesso, incapace perfino di pronunciare la parola “cancro”. Non riesce a comunicarla alla madre, con la quale il legame si rivela fragile, quasi estraneo; né all’amico che gli ha organizzato una festa.
Eppure riesce a dirlo a due estranei, forse perché la vera solidarietà, nel film, arriva sempre da chi non ti deve nulla.

Loquès imposta il racconto su tre giorni a Parigi, ma non sulla Parigi monumentale o da cartolina: su una città che è eccezione nella quotidianità. I dialoghi sembrano banali, ma lo sono solo in superficie; poi esplodono nella testa come piccoli detonatori: l’amico che finge leggerezza, la madre che ignora il silenzio, l’ex che se ne va, lo sconosciuto in un bagno pubblico.
La macchina da presa osserva senza intervenire, con una delicatezza quasi documentaristica. Il blu dominante della fotografia (firmata da Lucie Baudinaud) non è solo colore: è stato d’animo. È il gelo della notizia che si incarna nello spazio. I passanti lo attraversano, la città gli scivola accanto: Nino diventa invisibile e, in questa invisibilità, riscopre la vita.

In questo minimalismo si accende la grandezza di Théodore Pellerin, magnetico e trattenuto. Il suo Nino è un essere sospeso, dolente e vivo, che attraversa il film come un corpo di luce. Recita con i silenzi, con quella impercettibile vibrazione del volto che dice più di mille parole.
Accanto a lui, Jeanne Balibar, madre disincantata e a suo modo tenera, e Mathieu Amalric, apparizione surreale in un bagno pubblico. Due grandi attori, due presenze fugaci, che sembrano tenere a battesimo la nuova generazione del cinema francese.

Il film, nato da un lutto reale, contiene una punta d’ironia, come per dire che la leggerezza è una forma di resistenza: “Non si può fare finta che vada tutto bene.” “Eppure è proprio quello che facciamo sempre.” Il cuore di Nino è in questo scambio di battute. Non si tratta di guarire, ma di imparare a restare, di abitare la fragilità.

Loquès scrive dialoghi che oscillano tra ironia e verità, mostra la malattia non come spettacolo ma come parte del quotidiano.

Nino è un film che parla di malattia senza parlare di malattia e di morte senza mai nominarla.
È il racconto di un passaggio: dalla paura all’accettazione, dall’inconsapevolezza alla lucidità.
Un esordio che non punta al colpo di genio, ma alla verità dell’esperienza.

Pauline Loquès non mostra il dolore: lo sfiora, lo lascia vivere. E in tre giorni ci restituisce l’essenza del vivere. Il resto – il tempo, la paura – può attendere.

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