Palestine 36: il fuoco appiccato dagli inglesi in Medio Oriente

Alla Festa del Cinema di Roma, Annemarie Jacir firma un film corale che intreccia memoria e denuncia della genesi di un dramma collettivo

Palestine 36 di Annemarie Jacir - Festa del Cinema di Roma - recensione di Alessia de Antoniis
Palestine 36 di Annemarie Jacir - Festa del Cinema di Roma
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22 Ottobre 2025 - 10.12


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di Alessia de Antoniis

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C’è un punto d’origine che raramente il cinema occidentale osa guardare. Non è il 1948, anno della nascita dello Stato di Israele, né la risoluzione ONU del ’47. È il 1936, l’anno in cui la Palestina esplode contro il Mandato britannico, mentre l’idea di una “terra promessa” comincia a trasformarsi in progetto coloniale. È da qui che parte Palestine 36 di Annemarie Jacir, presentato alla Festa del Cinema di Roma dopo la première mondiale a Toronto: un film che scava nella storia per mostrare che le radici dell’ingiustizia non sono un incidente della geopolitica, ma un disegno preciso.

Jacir, tra le voci più potenti del cinema arabo contemporaneo, racconta l’inizio dell’incendio appiccato dagli inglesi: la promessa di un “focolare ebraico”, le false mediazioni, la violenza amministrativa del colonialismo. Il volto di questa macchina imperiale è quello dell’Alto Commissario britannico interpretato da Jeremy Irons: elegante, calmo, spietato. Dietro di lui, gli ufficiali (Billy Howle, Robert Aramayo) che incarnano la doppiezza del potere: buone maniere in pubblico, deportazioni e torture in privato.

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Ma Palestine 36 non si limita a denunciare l’invasore. Jacir guarda anche dentro le fratture del suo stesso popolo: la Palestina tradita da se stessa, da una classe borghese che nel 1936 preferì l’accordo alla rivolta, la garanzia del potere all’autonomia. Il film mostra come l’avidità e la miopia di alcuni leader palestinesi abbiano spianato la strada all’espropriazione, mentre il mondo arabo restava frammentato, incapace di costruire una solidarietà reale.

Al centro della storia, Yusuf (Karim Daoud Anaya) è un giovane contadino che si muove tra il suo villaggio e Gerusalemme, testimone di due mondi che si stanno spezzando: da un lato la terra che si restringe, dall’altro la città dove si decide il destino di chi la abita. Intorno a lui, Khuloud (Yasmine Al Massri), giornalista che scrive sotto pseudonimo maschile; Khalid (Saleh Bakri), lavoratore che diventa ribelle; Amir (Dhafer L’Abidine), intellettuale incapace di scegliere. Jacir intreccia le loro vite come in un ricamo: fili diversi di una stessa sconfitta.

Ma in pochi anni la colonia diventa un corpo parassitario che divora dall’interno i territori palestinesi. Comprano terre, costruiscono infrastrutture, assumono manodopera, poi la escludono. La regista mostra con precisione come la colonizzazione sia nata con la forza e con la strategia dell’infiltrazione: prima la recinzione dei terreni, poi l’occupazione illegale, la gestione delle risorse, infine il controllo politico. Un processo che già nel 1939 aveva mutato la mappa economica della regione, mentre il mondo, distratto dall’ombra del nazismo, fingeva di non vedere.

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Quando nel 1947 le Nazioni Unite approvano la risoluzione per la creazione di Israele, fu l’ufficializzazione di un processo già compiuto: la legittimazione diplomatica di un’occupazione che era iniziata sotto l’Impero britannico.

Girato tra Palestina e Giordania con la splendida fotografia di Hélène Louvart e Sarah Blum, Palestine 36 è un film monumentale; realizzato in condizioni estreme, interrotto più volte dalla guerra e completato solo nel 2024 dopo tredici mesi di produzione. È il primo lungometraggio girato in Palestina negli ultimi due anni, e già per questo è un gesto politico. Ma lo è soprattutto perché restituisce voce e corpo a un popolo la cui storia è stata continuamente riscritta da altri.

Un film che alterna il respiro dell’epopea storica alla concretezza del gesto quotidiano. Le immagini – donne che impastano, coloni ebrei che bruciano campi per renderli inabitabili  a chi vi viveva da generazioni – diventano simboli di una lotta che non conosce tregua.

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Straordinaria la prova di Hiam Abbass, che incarna la memoria della terra con un’intensità quasi sacrale; Saleh Bakri dà corpo alla dignità ferita del popolo; il giovane Anaya è lo sguardo di chi impara che la libertà non si negozia.

Palestine 36, candidato ufficiale della Palestina agli Oscar 2026 e nella shortlist degli European Film Awards, è un film che ha la forza di una cronaca e la grazia di un requiem. Jacir non offre risposte: ricorda soltanto dove tutto è cominciato.

Un film che mette a nudo la colpa dell’Impero, la complicità della borghesia palestinese e il metodo con cui una colonia si è trasformata in Stato: entrando dall’uscio e divorando dall’interno.
Un film necessario, perché mostra che il fuoco che ancora arde è quello acceso nel 1936 da inglesi e coloni ebrei.

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