di Alessia de Antoniis
Trent’anni dopo l’omicidio irrisolto di Sophie Toscan du Plantier, Jim Sheridan torna a interrogarsi sulla colpa, sull’innocenza, sulla verità che si sgretola sotto il peso dei pregiudizi. Il regista, sei volte candidato all’Oscar, lo fa con Re-Creation, film che non offre risposte, ma che è uno specchio dei meccanismi attraverso cui costruiamo le nostre certezze.
Presentato alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Progressive, vede nel cast Vicky Krieps, Jim Sheridan, Aidan Gillen, Colm Meaney e John Connors.
Dopo il documentario A murder at the cottage, Sheridan, insieme a David Merriman, sceglie di attraversare la stessa vicenda con un linguaggio diverso, ibrido: parte finzione, parte docu-fiction, parte esperimento morale. Re-Creation mette in scena il processo mai celebrato: dodici giurati, una stanza claustrofobica, 89 minuti di discussione basati su prove reali per stabilire se Ian Bailey, morto nel 2024 senza mai essere processato in Irlanda, fosse davvero l’assassino della regista francese.
L’omaggio a La parola ai giurati di Sidney Lumet è evidente, ma Re-Creation non è un esercizio di stile. Là dove Lumet cercava la logica del dubbio, Sheridan scava nei pregiudizi inconsci, nei traumi personali che deformano la percezione del reale e nel modo in cui genere, classe sociale e nazionalità condizionano il nostro senso di giustizia.
Il film si apre su un verdetto già deciso: undici giurati votano per la condanna; uno solo, la giurata n. 8, dissente. È Vicky Krieps, magnetica e imperscrutabile, portatrice di un dubbio che non è esitazione ma responsabilità. Il suo “no” rompe l’ordine maschile del consenso e mette in moto una catena di tensioni morali, culturali e di genere. La performance di Krieps, inquieta, frustrata, determinata, è il centro gravitazionale del film, incarnando la solitudine etica di chi sceglie di opporsi al consenso collettivo quando tutti vorrebbero chiudere il caso e tornare a casa.
Le prime a cambiare idea sono altre donne. Non perché solidali, ma perché ascoltano; perché accettano di mettere in discussione il loro pensiero; perché non temono di affrontare i propri pregiudizi. In questo piccolo universo chiuso, Sheridan e Merriman disegnano una mappa della misoginia quotidiana: il giurato n. 3 (un potente John Connors) non combatte con argomentazioni ma con insinuazioni, accusando le donne di fare squadra, di essere emotive, persino di avere una relazione. È la stessa logica che nel mondo reale continua a screditare chi osa mettere in discussione la narrazione dominante: quando le donne ragionano insieme, devono per forza tramare. Il monologo finale di Connors, in cui finalmente spiega le ragioni profonde della sua ostinazione, è notevole.
Sheridan si ritaglia un ruolo anche per sè: interpreta il presidente di giuria. Con questa presenza ammette la propria soggettività: chi racconta non è mai neutrale e chi giudica non è mai innocente.
Dietro la vicenda processuale aleggia un’altra frattura, quella tra Irlanda e Inghilterra. Ian Bailey, il giornalista inglese accusato del delitto, diventa simbolo di un’irrisolta tensione coloniale: la colpa dell’altro, dello straniero, dell’inglese come capro espiatorio. Sheridan non lo assolve né lo condanna, ma mostra quanto l’identità nazionale condizioni la giustizia e come il sospetto sia spesso la forma più raffinata di pregiudizio.
Girato in tre settimane con un budget minimo e dialoghi in gran parte improvvisati, Re-Creation respira un’urgenza quasi documentaristica. Quando i giurati spengono le luci e “ricreano” la notte del delitto, il film abbandona il linguaggio del diritto e si trasforma in un rituale: un tentativo disperato di restituire presenza a chi è stata ridotta a un faldone processuale.
Re-Creation può apparire imperfetto, come ogni processo reale. Ma la sua forza sta proprio nell’imperfezione: nella confusione dei registri, nelle pause, nelle sovrapposizioni di realtà e finzione. Sheridan e Merriman non cercano il colpevole per offrirlo in pasto al pubblico: restituiscono dignità al dubbio, indagando sul fallimento collettivo che ha permesso a un’ingiustizia di perpetuarsi per tre decenni.
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