“Un riservato poeta della tastiera”: Enrico Pieranunzi narra Bill Evans

In un libro il pianista italiano, intervistato per l'occasione, entra nelle pieghe dell'arte e della vita del leggendario artista americano

“Un riservato poeta della tastiera”: Enrico Pieranunzi narra Bill Evans
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Giuseppe Costigliola Modifica articolo

23 Ottobre 2025 - 13.16


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V’è sempre un particolare fascino nei libri di musicisti che analizzano l’opera di altri musicisti. A cominciare dal suggestivo titolo joyciano, espressione della poliedrica cultura dell’autore, è certo tale il caso di Bill Evans. Ritratto d’artista con pianoforte, di Enrico Pieranunzi, pubblicato da Il Saggiatore (pp. 218, € 18).

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Dedicato al proprio padre Alvaro, “alla sua chitarra”, il volume è mirabilmente introdotto da Carlo Serra, docente di Estetica, Teoria del suono e della musica, il quale coglie i nuclei di questa “storia di un apprendistato che sa più di destino che di sviluppo”, dove la figura protagonista accoglie, “come uno schermo”, quanto l’autore cerca di se stesso. Terreno scivoloso, questo dei transfert psichici ed estetici, in cui tuttavia balena una qualche verità.

Per evitare fraintendimenti, partiamo dalla “Nota dell’autore”, un racconto nel racconto pieno di notizie e di “destino” che illumina il percorso su cui Pieranunzi ha strutturato la propria monografia, accettando, oltre trenta anni fa, “dopo un periodo di travagliate e amletiche riflessioni”, la proposta del responsabile di “Jazz People”, collana di tascabili pubblicata da Stampa Alternativa che proponeva biografie di grandi jazzisti scritte da musicisti. Il pianista romano affrontò dunque la sfida, per lui rischiosa, poiché, stanco dell’etichetta di “evansiano”, stava allora elaborando una “complicata separazione dall’influenza più diretta” del musicista di Plainfield sul suo modo di suonare. Ebbene, la chiave di lettura da lui scelta per narrare la vita e l’arte di Evans è “il rapporto creatività-distruzione”, tema psicanalitico e letterario per eccellenza, indirettamente suggeritogli da Chet Baker, che gli aveva rivelato i problemi avuti da Evans per l’uso di stupefacenti: “Pensai a un doppio filo biografico. Una linea avrebbe seguito Evans nel suo percorso esistenziale, dall’infanzia alla maturità, e un’altra, parallela, avrebbe ripercorso il suo cammino artistico dalle primissime incisioni fino alle ultime”.

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I diciotto capitoli, corredati da foto, ripercorrono le registrazioni fondamentali con appunto il lucido “interplay” – concetto fondamentale nel lessico musicale e in particolare nell’attività di Evans, come il “voicing”, cioè l’armonizzazione delle melodie – tra vicende biografiche e artistiche. Preziosa la sezione “Featuring”, con i contributi del contrabbassista Marc Johnson e del batterista Paul Motian, in tempi diversi pilastri delle storiche formazioni in trio guidate da Evans – con i quali, in una sorta di ideale passaggio del testimone, lo stesso Pieranunzi ha suonato e inciso –, cui seguono l’indicazione delle fonti e gli Ascolti, dove vengono puntualmente annotate le registrazioni del grande pianista come sideman, in trio, in piano solo e quale leader di gruppi altri dal trio.

Detto della struttura, bisognerà spendere più d’una parola sulla profondità di analisi di cui l’autore dà prova. Lucidissima quella musicale: veniamo guidati all’ascolto dei brani più rappresentativi del “Maestro”, intesi come una sorta di “autobiografismo dissimulato”, i cui titoli sono “tracce allusive del suo stato d’animo”, e interpolati con il vissuto: i rapporti familiari – essenziale la figura del fratello Harry, che gli rivelò l’universo del jazz –; gli studi al Southern Louisiana College; la composizione di “Very Early”, pezzo “in largo anticipo sui tempi”, “primo e succoso frutto di un talento compositivo e personalissimo”; il “duro, sgradevole” periodo della vita militare (ben tre anni) e i primi ingaggi, all’alba degli anni Cinquanta; il trasferimento a New York a metà decennio e la frequentazione dei corsi di composizione alla Mannes School of Music; la registrazione del primo disco a suo nome (New Jazz Conceptions) e gli incontri artistici determinanti, tra i quali certo spicca quello con Miles Davis che, per ingaggiare il pianista “bianco” nei concerti e per l’incisione del leggendario Kind of Blue, superò critiche anche violente da parte della comunità afroamericana, in cui grandi esecutori non mancavano certo.

La collaborazione con Davis segna l’inizio di uno dei più intensi periodi della vicenda evansiana, in cui si rivela in tutta la sua pregnanza la storia del jazz moderno, ricostruito per sapidi accenni e assoluta competenza. Ecco dunque la composizione dello straordinario trio con Paul Motian e Scott La Faro, “l’avventura musicale più importante della sua vita artistica”, che ha prodotto “un allargamento degli orizzonti musicali” lasciandoci memorabili incisioni e altrettanto memorabili performance dal vivo per chi ebbe la ventura di assistervi; il secondo trio, con Chuck Israel in luogo dello sfortunato La Faro prematuramente scomparso, cui Pieranunzi dedica penetranti osservazioni; l’importante incontro con l’illuminata manager Helen Keane; le sovraincisioni di Conversations with Myself, che valse a Evans il primo dei sette Grammy Award; lo sbarco in Europa a metà anni Sessanta, dove il pianista dimostra il suo “sterminato vocabolario armonico”, una “impressionante immedesimazione tra sé e il suo strumento”; il terzo trio, con Eddie Gomez al contrabbasso e Marty Morell alla batteria; la collaborazione con la major Columbia e una fase di involuzione artistica, anche dovuta al reiterato uso di stupefacenti; il radicale cambiamento di stile avvenuto agli inizi degli anni Settanta e un certo “processo di slittamento verso il disimpegno”; il notevole album You Must Believe in Spring, con “le prime tracce dell’inquietante percorso che il destino comincia a disegnare intorno a Evans”; il nuovo, prolifico trio con Marc Johnson e Joe La Barbera; il suicidio del fratello Harry e della ex compagna, eventi che diedero “campo libero alle energie distruttive” del pianista. Sono pagine, queste ultime, di una lectio magistralis in cui la musica travalica nella vita, con l’analisi della struggente versione di “Nardis” presente in The Paris Concert Edition Two, che “condusse il pubblico per mano attraverso luoghi sconosciuti e bellissimi, dove non era mai stato prima”, sino all’emorragia che il 15 settembre 1980 portò alla morte, ad appena 51 anni, questo “riservato poeta della tastiera”.

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Il contrappunto tra piano musicale e piano psicologico è dunque l’elemento più originale del testo, uno sforzo euristico caratterizzato da profonda partecipazione emotiva, che rende questo saggio un’autentica perla. Sono notazioni scritte con prosa elegante e scorrevole, monda di quei tecnicismi che talvolta rendono ostica la lettura, dove si sintetizzano con chiarezza espositiva le peculiarità compositive ed espressive di Evans, il suo ricco bagaglio musicale che affonda nel repertorio classico, mettendone a fuoco il ruolo centrale avuto nello sviluppo del linguaggio pianistico nel jazz, dagli aspetti armonici a quelli melodico-formali, timbrici, estetici e storici. C’è davvero tanto da apprendere, così da riascoltare quelle incisioni con ben altra consapevolezza.

Ma è soprattutto ammirevole l’acume con cui l’autore coglie le radici profonde della personalità di Evans, l’empatia che gli permette di portare alla luce i nodi irrisolti di quell’uomo “dall’intelligenza acuta e dall’umorismo sottile e penetrante”, pervaso da “un inestinguibile disagio esistenziale”, un radicato istinto di morte, una “fragilità che viene dal non sentirsi veramente amati”, elementi che dalla vita percolarono nella sua arte.

Pieranunzi appare insomma in perfetta sintonia con il contenuto emozionale della musica di Evans. Un’immedesimazione tale che, senza addentrarci in paragoni tecnico-stilistici, non è forse temerario riportare ad alcune similitudini tra i due: entrambi artisti esigenti e autocritici, inclini all’understatement e con un carattere antiesibizionistico, tesi verso la ricerca di quel quid – musicale, esistenziale – che si trova “nella zona del silenzio, del non detto” (come è percepibile, in Evans, in brani quali “How Deep is the Ocean” e “Spring is Here”), artefici di sonorità che alludono a una realtà inconscia, profonda, di difficile navigazione, dove la solitudine è disagevole compagna.

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L’incontro a distanza tra i due grandi pianisti è quindi tra i più riusciti, e non è cosa ovvia. L’intima adesione al soggetto di indagine, la sua comprensione profonda, spirituale – diremmo – ed esistenziale prima ancora che artistica e culturale, rende smaglianti queste pagine, dalla cui lettura si emerge arricchiti non soltanto sul piano musicale.

Per l’occasione, abbiamo intervistato Enrico Pieranunzi.

Com’è cambiato negli anni il tuo rapporto, da musicista e da ascoltatore, con la musica di Bill Evans?

Per sintetizzare direi che sono passato dal dubbio con irritazione (intorno ai vent’anni – e per un po’ dopo – non amavo la sua musica, preferivo i pianisti bop e/o hard bop) all’amore con passione (il turning point fu l’incontro con Chet Baker che mi accompagnò con dolcezza verso la melodia) fino all’attuale commossa ammirazione con immenso affetto.

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Cosa ti spinse a lanciarti in un corpo a corpo con la vicenda esistenziale, oltre che artistica, di Evans, per scavare così a fondo nella sua sostanza più intima?

In parte, probabilmente la mia stessa situazione esistenziale che pur senza raggiungere la drammaticità della vicenda esistenziale di Evans era stata molto complicata negli anni precedenti la scrittura del libro. Indagare a fondo la vicenda di Evans poteva aiutarmi a comprendere la mia, pur con tutte le differenze. Al centro c’è comunque la solitudine, che in presenza del successo o del consenso sembrerebbe un paradosso. Ma la solitudine resta, anche col successo e il consenso. È il male oscuro che ti invade quando hai a che fare col mistero della musica, soprattutto se lo fai mettendoti completamente in gioco e magari perdendoti, per farlo, altri pezzi importanti dell’esistere. E poi tutta la musica di Evans racconta, in ogni suono, e rappresenta in maniera più efficace di qualsiasi discorso, quel connubio creatività-autodistruzione che sembra essere una costante di molti grandi artisti di tutte le arti e di tutte le epoche.

Quali insegnamenti può trarre dal pianista di Plainfield un giovane che si affacci al complicato mondo del jazz?

C’è in Evans una parte molto ampia, “tecnica”, che può e deve secondo me essere conosciuta da tutti i pianisti. In particolare il ‘voicing’, vale a dire il modo di armonizzare le melodie. Evans ragionava al piano da “arrangiatore-orchestratore” e dava ai suoi percorsi armonici un senso espressivo e narrativo che nessuno aveva mai mostrato nel jazz prima di lui. Il suo tocco pianistico intriso di tradizione europea lo rendeva diverso da tutti gli altri pianisti a lui contemporanei. Davis se ne accorse più di tutti gli altri e aveva ragione. Poi c’è la parte inafferrabile, quella più squisitamente artistica. Quella la si puòsolo amare e usare come linea-guida estetico-etica. Nel senso di mettere la musica, la ricerca, l’onestà nel perseguire ilmiglior risultato musicale possibile sempre e dovunque al centro della propria vita di musicista.

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