di Antonio Salvati
Si può condurre una vita senza letteratura, intesa ovviamente in senso stretto e che corrisponde all’insieme delle opere, affidate alla scrittura, attinenti ad una cultura o civiltà. Ma sarebbe – diciamocelo – una vita meno consapevole: una persona che non legge libri non ha uno spiccato spirito critico, è priva di quella capacità analitica e speculativa che consente di andare al di là delle apparenze; anche se prova dei sentimenti, non è in grado di prevederne lo sviluppo o di gestirli adeguatamente perché non può riconoscersi nei personaggi dei libri che hanno vissuto le stesse esperienze emotive.
Senza letteratura spesso non si possiedono le parole che dicono la paura, la fragilità, la differenza, la tristezza. In altri termini, si è privi della capacità di nominare le cose, mancano le emozioni e, conseguentemente, il controllo sulla realtà e su sé stessi. Ne è convinta Sara Durantini, da pochi giorni presente in libreria con la sua ultima fatica Questo mio corpo (Dalia Edizioni 2025, pp. 134 € 14,00). Si tratta di un dialogo dell’autrice con sé stessa ventenne, proveniente dalla campagna – «ancorata a fantasie con le quali nutrivo la mente, lontane, tuttavia, dalla concretezza dei sentimenti reali. Erano illusioni perfette dentro le quali potevo perdermi senza il timore di essere ferita» – approdata all’Università di una ricca città del nord Italia. Un’indagine retrospettiva – quella della Durantini – sulle vicissitudini di una ragazza alle prese con la propria crescita, personale e insieme collettiva, della propria emancipazione dalla manipolazione e dall’abuso, «per risalire dalla voragine nella quale ero sprofondata molti anni addietro, quando il mio mondo aveva iniziato a crollare senza che potessi fare nulla e avevo iniziato a sentirmi estranea persino a me stessa». La grande intuizione della protagonista è trovare un approdo nella letteratura perché «proprio quei libri e quelle storie avevano rappresentato delle ancore di salvezza, piccoli rifugi di carta in cui potevo ritrovare frammenti di un’identità perduta e riscriverla, pagina dopo pagina. Con il tempo, ogni libro era diventato una porta aperta verso un altrove che mi seduceva e mi spaventava al tempo stesso, poiché le parole mi costringevano a confrontarmi con parti di me che ancora non conoscevo, ma che non potevo più ignorare». Del resto, «l’amore dei libri non chiedeva nulla in cambio, se non la mia immaginazione».
La Durantini rivede e ricostruisce la storia di «quella ragazza che per anni ha brancolato nel buio, inciampando nella difficoltà di chiamare gli eventi, i sentimenti, gli incontri, col loro nome, nel timore costante di toccare fili scoperti, quella ragazza che ha impiegato oltre vent’anni per cercare le parole che avrebbero dovuto aiutarla a raccontare». E scrivendo questa storia avverte il timore «di tradire chi leggerà queste pagine, chi crederà di trovarsi davanti a una verità assoluta. Eppure, continuo. Fedele a me stessa e al mio progetto, a quel bisogno di giungere a un certo grado di realtà».
Indubbiamente, la scrittura offre un rifugio, un modo per andare avanti proteggendosi dietro alle parole. Usare proprio le parole per accedere a un certo livello di realtà che non coincide necessariamente con la verità, come scriveva Annie Ernaux: «Per me, la verità è semplicemente la parola data a ciò che cerchiamo e che si sottrae continuamente». Per farlo, per accedere a questo livello di realtà, la Durantini ha avvertito il bisogno di avvicinarsi alla protagonista del romanzo, di immedesimarsi, «di vestire nuovamente i suoi panni, di sentire, fino in fondo, quello che ha provato». Ho bisogno di stare con lei, di ascoltarla. Di essere lei». Di questo ed altro abbiamo deciso di parlarne direttamente con l’autrice.
In questo libro si parla anche della scoperta del desiderio, ma anche del mettersi al mondo attraverso le parole. Viene in mente lo slogan femminista per eccellenza: il personale è politico: raccontare la propria vita è un gesto radicalmente politico sempre, anche quando non è militante. In tempi in cui si parla molto di autofiction, perché partire da una voce individuale, singolare per trasformarla in una voce collettiva?
Non è stato semplice dare forma a quella voce. Era già lì, sotterranea, mentre scrivevo Annie Ernaux. Ritratto di una vita e Pampaluna. Sentivo il bisogno di portarla alla luce, ma nel modo che sentivo più mio. Non volevo che fosse un diario, volevo scrivere questa storia come fosse la storia di un’altra persona. Come era accaduto con Pampaluna, sentivo la necessità di guardare da fuori, di creare una distanza, di osservare la protagonista da un’angolatura diversa, quasi estranea, pur sapendo che quella ragazza (anche se oggi non c’è più) mi ha rappresentata profondamente. Scrivere partendo da una voce individuale, per me, significa proprio questo: trasformare un’esperienza personale in una forma che possa parlare anche agli altri. È un gesto politico, sì, ma prima ancora è un atto di onestà.
La tua protagonista è una donna che si confronta con la ragazza che è stata, in un apprendistato alle forme di femminismo, come hai fatto dialogare questi due io?
È stato, prima di tutto, un rimettermi al mondo. Il dialogo tra la me di oggi e la ragazza che sono stata è nato come una necessità. Era l’unico modo in cui sentivo di poter raccontare questa storia senza tradirla, senza scivolare nella retorica o nel già detto. Avevo bisogno di restituire dignità a quella ragazza, di riscattarla, di fare chiarezza su ciò che era rimasto in sospeso.
Fin dal titolo questo libro mette al centro i corpi, come ciò che conserva memoria, che porta i segni. Però il corpo non è più uno spazio agito, su cui accadono le cose: è lo spazio che ricorda, mentre la mente diventa il campo di battaglia, all’opposto rispetto a quello che effettivamente ci aspettiamo…
Sì, ma è una lettura che riesco a fare solo oggi, dopo aver attraversato quel passato. All’epoca, per me, il corpo era tutto: era il tramite attraverso cui entravo in contatto col mondo, anche se non comprendevo davvero ciò che stavo vivendo. Era il linguaggio che avevo a disposizione, lo strumento primario dell’esperienza. La mente, però, era già allora un campo di battaglia, solo che non ne avevo ancora piena coscienza. Il corpo subiva, reagiva, si adattava, ma è nella mente che si annidavano i conflitti più profondi.
Dentro questo libro c’è un accuratissimo collocamento dentro uno spazio e un tempo molto netti, raccontati rispetto a quello che accade intorno: la musica, le letture, l’attualità dell’inizio degli anni 2000 che riverbera nella storia e ci aiuta a capire chi fossimo e chi siamo.
Nel momento in cui ricordo, ho bisogno di ancorarmi a qualcosa di concreto: una canzone, un luogo, un odore, un locale. Sono questi ricordi che mi permettono di attraversare la memoria, di non perdermi. Il libro è dislocato tra Parma, Mantova, Milano, città che diventano parte integrante della narrazione, contenitori emotivi e storici. Avevo bisogno di ritornare a quei momenti spartiacque che ci hanno cambiato nel profondo, individualmente e collettivamente: il passaggio dalla lira all’euro, l’11 settembre, il G8 di Genova, l’ingresso della tecnologia nelle nostre vite con le prime chat, quando tutto passava attraverso le parole scritte, e ci sembrava rivoluzionario.
Cosa ti fa pensare di oggi rileggere quei tempi?
Sento che una parte di me è ancora ancorata a quella storia sociale e culturale, a quell’Italia che ormai non esiste più. In realtà, non ho una risposta definitiva. Più vado avanti, più mi accorgo di quanto siano necessarie le domande. E credo che oggi più che mai serva una riflessione profonda sul nostro passato e sul nostro presente, soprattutto in relazione ai diritti e al discorso femminista. Il rischio, se smettiamo di interrogarci, è quello di dare per scontate le battaglie già combattute, di dimenticare quanto sia stato lungo e doloroso il percorso verso una consapevolezza dell’identità femminile.
Un concetto che percorre tutto il libro è il silenzio, la parola come via di fuga dal silenzio degli altri.
Il silenzio di cui parli mi riporta alla solitudine. Pensando a silenzio penso a solitudine. Questa ragazza è circondata dalla famiglia, però in realtà è sola, perché le sue parole tornano indietro. Non vengono accolte, non trovano spazio. Il silenzio degli altri diventa allora un vuoto che inghiotte, che isola. E la parola, scritta, pensata, immaginata, diventa l’unica via di fuga possibile, l’unico modo per esistere davvero.
E poi ci sono le parole con cui questo silenzio lo rompi, le parole delle scrittrici. Perché quelle?
Nel libro la ragazza inizia a uscire dal silenzio, lentamente, grazie alle parole di alcune scrittrici. Marguerite Yourcenar, Marguerite Duras, Annie Ernaux. Tutte donne, con poche eccezioni, che le offrono un linguaggio nuovo, più vicino alla sua esperienza interiore. Le letture dei loro libri diventano una sorta di passaggio, un sentiero che la conducono verso sé stessa, verso una comprensione ancora confusa ma potente di ciò che sta vivendo e della donna che sta diventando. Non ha ancora tutti gli strumenti per decifrare fino in fondo quelle parole, ma le sente sue. Le riconosce prima ancora di capirle. Quelle scrittrici le trasmettono qualcosa di profondo, qualcosa che tocca un nervo scoperto. Le parole che riceve da loro sono chiavi, anche se non sa ancora quali porte apriranno, ma capisce che deve tenerle strette. Perché un giorno, forse, torneranno utili.
L’altro basso continuo che percorre il libro è quello del senso di colpa. Tante volte non si perdona della reazione che non sa avere all’abuso, di non essere stata adeguata a risolvere, a gestire, a uscirne.
Sì, il senso di colpa attraversa il libro come un basso continuo, a volte sommerso, altre volte più evidente. È un sentimento che la ragazza prova anche solo verso la sua stessa esistenza, per esserci, come fosse un elemento di disturbo. Poi lo prova anche per non essere riuscita a reagire come avrebbe voluto o come avrebbe “dovuto”. A un certo punto si trova dentro una dinamica che oggi definiremmo tossica, manipolatoria, ma allora, vent’anni fa, non c’erano le parole per chiamarla così. E la narrazione dominante continuava a colpevolizzare le donne, a farle sentire inadeguate, responsabili, sbagliate. Scrivere questa storia è stato anche un modo per guardare in faccia quel senso di colpa, dargli un nome, trasformarlo e riconoscerlo. Perché è solo quando qualcosa prende forma nel linguaggio che inizia ad esistere e quindi può essere riconosciuto, compreso, condiviso. È un libro che va letto per potercisi ritrovare. Perché nel momento in cui una consapevolezza prende forma sulla pagina, inizia ad esistere e quindi viene riconosciuta con maggiore chiarezza, in modo più netto e intenso, rispetto a quando si prova semplicemente a raccontarla a voce. Scriverla significa darle corpo, fissarla.
Dentro questo libro c’è il possesso, da un lato, ed è un possesso maschile. Dall’altra parte c’è una donna e ci sono tutte le componenti di cui è fatto quello che per me con ogni evidenza è un amore possibile. Un amore come nuovo corpo, fatto di tutte le componenti, un amore in senso ampio: la stima, l’ammirazione, il nutrirsi reciprocamente: è importante riconoscere di cosa è fatto un amore sano in contrasto al possesso e alla manipolazione che passa qui in un rapporto di coppia.
Sì, hai evocato il personaggio di Anne Marie, che in realtà nasce dalla fusione di due persone reali, incontrate in due momenti diversi della mia vita, seppur non troppo distanti tra loro. Ho scelto di unirle in un’unica figura, dandole un nome che è anche un omaggio a uno dei personaggi più potenti di Marguerite Duras: Anne-Marie Stretter. Donna dell’infanzia di Duras, che diventa per lei simbolo del desiderio, della femminilità, dell’indipendenza. Una figura che viene mitizzata, elevata a immagine altra, quasi inarrivabile e che Duras metterà al centro di molte sue opere letterarie e cinematografiche. Per me, la mia Anne Marie è proprio questo: simbolo di un desiderio che non si può trovare in un uomo. Qualcosa di più potente, più completo, che forse proprio perché femminile, e non mediato dal maschile, può offrire uno specchio autentico. La ragazza vede in Anne Marie ciò che le manca, e al tempo stesso ciò che può diventare. È questa presenza, luminosa e diversa, che le dà la spinta per uscire dalla relazione tossica in cui è intrappolata, per cominciare a riconoscere un’altra idea possibile di amore, di sé, del proprio corpo.
Il cuore del discorso è il concetto di potere. Scrivi: “Può esistere consenso dove esiste disparità di potere? Il tema non è il genere, ma il potere agito in una modalità prevaricante o non prevaricante, e come scegliamo di agire il potere?
Non si tratta, come dici, di genere, o almeno non solo, ma di come scegliamo di abitare la nostra presenza nel mondo, di come entriamo in relazione con l’altro: se per accogliere o per dominare. Quando scrivo quella domanda, in realtà, non sto cercando non sto cercando una risposta assoluta ma sto tentando di aprire un varco, di creare le basi per una discussione. Certo, è un tema molto attuale rispetto al dibattito politico e culturale che si sta facendo sul consenso sessuale in Italia da qualche anno a questa parte. Nel nostro Paese, purtroppo, non abbiamo ancora una legge chiara e completa su questo tema, a differenza di altri Stati europei. La mia speranza è che, tra qualche anno, qualcuno leggendo questo libro possa dire: “Le cose sono cambiate così tanto che tutto questo sembra lontano, superato, quasi antico”. Sarebbe il segno che abbiamo fatto un passo avanti, non solo a livello normativo, ma soprattutto culturale.