La diva del Bataclan: il trauma come performance nell’era digitale

In Prima Nazionale al Vascello di Roma per RomaEuropa, Paolocà e Marsicano trasformano il dolore in performance spettrale

La diva del Bataclan: il trauma come performance nell’era digitale
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Alessia de Antoniis Modifica articolo

31 Ottobre 2025 - 11.37


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di Alessia de Antoniis

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Quando la finzione smette di fingere e comincia a respirare come un organismo autonomo? È in quella soglia che si muove La diva del Bataclan, nuovo lavoro di Gabriele Paolocà, con una straordinaria Claudia Marsicano, presentato in Anteprima Nazionale al Teatro Vascello per Romaeuropa Festival 2025.

Dopo La ferocia, Paolocà torna a esplorare le zone d’ombra del nostro tempo, dove il dolore diventa linguaggio e il linguaggio merce; e dove il trauma sopravvive se condiviso, spettacolarizzato, monetizzato. Il risultato è un musical disturbante e disturbato, una parabola sul bisogno di esistere attraverso la visibilità, sulla fame d’empatia che abita l’era digitale, sulla metamorfosi del dolore in intrattenimento.

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Marsicano è immersa in un paesaggio sonoro elettronico che mescola campionamenti, distorsioni e frammenti pop. Intorno a lei, Rosita Vallefuoco (Scene) Martin Emanuel Palma (luci), Luca Brinchi e Paolocà (video), Niccolò Menegazzo (progetto audio) creano un’iconografia dai colori saturi, atmosfere da club postmoderno, dove glamour e abisso si confondono.

La regia costruisce uno spazio mentale: un palco vuoto, un microfono vintage, luci al neon, uno schermo che riflette immagini della scena e trasmette video, una postazione pc: oggetti che diventano simboli della nostra fame di visibilità.
Il testo, denso e lucido, si ispira a un fatto reale: il caso delle false vittime degli attentati del Bataclan del 13 novembre 2015. Una quindicina di persone che si finsero sopravvissute per ottenere visibilità, assistenza e risarcimenti. Al centro dello spettacolo, Audrey (Claudia Marsicano), giovane donna della banlieue parigina, si costruisce un’identità fittizia di sopravvissuta e la trasforma in un progetto di riscatto.

Marsicano porta in scena un personaggio potente, fragile e predatorio, ironico e straziante, oscillante tra la confessione e la messinscena, tra reality e rito. A tratti sembra una versione teatrale e femminile del Joker di Todd Phillips: un clown del disagio sociale che, travolto dall’indifferenza e dal bisogno di essere visto, trasforma il proprio dolore in performance e la disperazione in prova d’attore. Ma laddove Joker è travolto dal caos, la diva del Bataclan lo orchestra, con una consapevolezza lucida e perturbante.

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La scrittura di Paolocà procede per frammenti, flussi di coscienza, scarti linguistici e glitch vocali che sembrano riscrivere la grammatica stessa del trauma. Il linguaggio appare ferito, balbettante, costellato di lapsus e neologismi, come se la lingua soffrisse del disturbo post-traumatico della sua protagonista. È una lingua contaminata dal web, piena di hashtag, comandi vocali, slogan, frasi da tutorial. E da quell’ossessione per la connessione che diventa la vera dipendenza del presente. Audrey vive la propria vita attraverso gli schermi, crea profili falsi, amicizie digitali, identità alternative. La realtà uccide, la finzione salva, sembra essere il messaggio metatestuale dell’opera.

Le musiche originali di Fabio Antonelli trasformano il monologo in un ibrido fra teatro e concerto. La colonna sonora oscilla fra il rock degli Eagles of Death Metal, la band che suonava la notte della strage, e momenti di straniante leggerezza pop, come il jingle nonsense sull’omelette, metafora dell’algoritmo e della ricompensa dopaminica del web.

Il canto della Marsicano nasce dal parlato e vi ritorna: spezzato, imperfetto, a tratti lirico, a tratti urlato. È un dispositivo espressivo dove la voce diventa corpo e il corpo strumento di dissociazione. La sua “diva” è un animale scenico che canta per restare viva, ma la voce, amplificata e distorta, si trasforma in eco, in glitch, in memoria che implode su se stessa.

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È un teatro che nasce dalla musica ma esplode nella performance, un musical distorto dove il canto è crepa e confessione. La Marsicano attraversa tutti i registri possibili: ironia, dolore, delirio, autocelebrazione. La sua presenza è totalizzante, la sua fisicità vulnerabile e imperiosa insieme: diva queer, santa mediatica, vittima algoritmica.

Il cuore drammaturgico è l’invenzione del trauma come via di salvezza.
Quando il Presidente della Repubblica pronuncia il suo discorso alla nazione ripetendo “noi” all’inizio di ogni frase, Audrey sente di poter finalmente appartenere a qualcosa: quel “noi” collettivo diventa la scintilla per il suo inganno. Si finge vittima, lavora in un’associazione di supporto psicologico, accumula storie e riconoscimento, fino a sentirsi più esperta del dolore delle vere vittime.
È un’anti-eroina post-traumatica che ci obbliga a specchiarci nel nostro narcisismo quotidiano, nella pornografia dell’empatia e nell’industria della sofferenza condivisa.
Il suo culmine coincide con il ritorno immaginato al Bataclan riaperto: un rito di rinascita che diventa riscrittura del reale. Audrey ottiene l’alloggio, il risarcimento, la fama virale; ma al prezzo di perdere sé stessa. La sua identità fittizia è ormai più vera dell’originale e il desiderio di non voler uscire da questo momento rivela il paradosso di una società che si riconosce solo attraverso il trauma.

La diva del Bataclan è teatro politico ed etico: non parla di un evento ma di un meccanismo, quello che trasforma il dolore in racconto e il racconto in valuta.
Paolocà interroga la nostra complicità: non giudica, ma osserva con lucidità chirurgica il sistema che premia la performance del dolore più del dolore stesso.
Marsicano gli offre un corpo e una voce che non cercano empatia ma verità.
Ne nasce uno spettacolo scomodo, di notevole potenza poetica e intellettuale.
Un musical spettrale che fa della falsificazione un atto di sincerità, ricordandoci che il teatro resta il luogo in cui la menzogna può dire la verità meglio di qualsiasi realtà.

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