L’Europa smarrisce la memoria della pace e torna a celebrare la guerra come strumento di identità e potere

Nel libro La guerra è merda, Jacques Charmelot condanna la corsa al riarmo europeo, la propaganda militarista e l’oblio morale di un continente nato dalle macerie del conflitto.

L’Europa smarrisce la memoria della pace e torna a celebrare la guerra come strumento di identità e potere
Jacques Charmelot
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31 Ottobre 2025 - 19.06


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di Rock Reynolds

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Un tempo lo si chiamava pamphlet: un libro breve, dal contenuto polemico. Potrebbe bastare per dare una prima collocazione a La guerra è merda (Solferino, pagg 159, euro 15,50) di Jacques Charmelot, giornalista francese e corrispondente di lungo corso da zone calde del pianeta, non fosse che il suo libro, ancorché corto e animato da una forte vena antisistema, è tutto fuorché una lettura superficiale e tendenziosa.

In poche pagine, la condanna dell’insensatezza della guerra è articolata con la razionalità di un giornalismo quasi scientifico e con il trasporto di una cronaca che sconfina nell’antropologia.

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La guerra è una schifezza e l’uomo può e deve farne tranquillamente a meno. All’obiezione che è da quando esiste l’uomo che esiste la guerra, Charmelot risponde che è da quando esiste l’uomo che esistono i giochi di potere e che il potere lo si esercita anche attraverso una narrazione distorta della realtà, che qualcuno preferisce chiamare propaganda, e che dai disastri della collettività c’è sempre qualcuno che trae un enorme tornaconto personale.

Ne La guerra è merda, Jacques Charmelot affronta la questione di petto, non lasciando mai zone d’ombra. La sua opposizione alla guerra è assoluta e ha radici dolorose: le esperienze traumatiche del padre nel Primo conflitto mondiale. Ma il principale punto di forza di questo libro breve quanto intenso, rabbioso quanto commovente, è la sua oggettività: l’autore fa sempre un passo indietro per non essere protagonista e sembra quasi in imbarazzo quando non può fare a meno di descrivere situazioni che ha vissuto in prima persona. Non è poca cosa, in un mondo narcisistico in cui in pochi si lasciano sfuggire l’occasione di lucidare l’ego.

All’alba di una nuova era che rischia di essere la più bellicista per il continente Europa dalla fine della Seconda guerra, «siamo tornati a parlare di riarmo, di nemico alle porte, di manovre di confini. È un linguaggio ormai del tutto normalizzato». E a spaventare maggiormente sono proprio lo sdoganamento della propaganda bellicista, la creazione di un nemico necessario, la quotidianità del bisogno di essere “pronti”, insomma la normalizzazione dell’idea che presto si potrebbe essere in guerra.

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Leggete questo libro e non ve ne pentirete. Le parole che Charlmelot ci ha detto dovrebbero essere il viatico più convincente per correre in libreria ad acquistarlo.

Si parla sempre più di riarmo in questa nostra Europa. Qual è la prima cosa che le viene in mente in proposito?

«In seguito alle pressioni degli Stati Uniti, l’Europa ha deciso di investire circa 800 miliardi di euro in progetti industriali militari. Quanti di questi investimenti saranno davvero fatti, e come, resta da dimostrare. Ma l’idea stessa di finanziare la produzione di armamenti è un controsenso storico. Su un continente che ha visto milioni di milioni di uomini e donne morire in guerre inutili, città intere distrutte e massacri senza precedenti nella storia del mondo, parlare di guerra è un insulto alla memoria delle generazioni che abbiamo perduto. La guerra è il metodo più arcaico e più stupido per risolvere i problemi. Noi europei viviamo in pace e prosperiamo da ottant’anni perché abbiamo scelto la cooperazione e non il contrasto. I cittadini d’Europa devono svegliarsi, dire “No!” alle armi, ed esigere governi capaci di visione e strategia, in grado di anticipare e di risolvere i conflitti anziché subirli.»

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A proposito d’Europa, lei dice che “è la nostra sola possibilità di salvezza”. Cosa intende?

«L’Europa è nata sulle rovine di un conflitto terribile. Avevamo ben chiari davanti agli occhi gli orrori, le devastazioni, i massacri e anche per questo abbiamo avuto lo slancio e la forza per creare un laboratorio di convivenza unico al mondo. Abbiamo saputo utilizzare la conciliazione e la negoziazione per passare da un mondo in cui dominava la legge del più forte a un mondo retto dalla forza della legge. Paesi che erano stati su fronti opposti per secoli si sono impegnati a lavorare insieme per costruire un futuro comune. Questa è la salvezza, l’unica possibile. Abbandonare questa strada significa rinunciare al nostro destino. Slogan etnonazionalisti e messaggi militaristi ci portano su una strada rovinosa. Dobbiamo esigere che i nostri governanti abbandonino questa strada.»

Scegliendo un titolo come La guerra è merda, ha riflettuto sul fatto che qualcuno avrebbe potuto prenderla poco sul serio?

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«Il titolo non è una provocazione, né un gioco di parole. È una descrizione precisa della realtà della guerra. La guerra puzza: di sudore, di piscio, di sangue e di merda. La reazione fisiologica del corpo al combattimento è di svuotarsi, ed è quello che accade a una grande percentuale dei soldati sul fronte. Se la fanno addosso. È un tabù, nessuno ne parla, perché non è molto eroico. Ma è un fenomeno ben documentato a cui sono dedicati anche studi che cito nel libro, oltre a passaggi molto espliciti dei più grandi romanzi sulla guerra: pensiamo a Niente di nuovo sul fronte occidentale, il capolavoro di Remarque. Ma la merda non è solo fisica: invade anche la mente, perché combattere e uccidere porta a un degrado psicologico e morale, è qualcosa che va contro la nostra stessa umanità e che ci cambia. Modificando in peggio anche le nostre società: quando la violenza diventa la norma, la struttura della nostra convivenza affoga in una cloaca pestilenziale.»

Come si riesce ancor oggi a far passare l’idea che sia più importante investire soldi in armi che in servizi essenziali?

«La propaganda è un’arma di distruzione di massa. Polverizza l’intelligenza, la curiosità, lo scetticismo dei cittadini. Basta evocare il pericolo di un nemico immaginario perché la paura sostituisca il buonsenso. È più facile per i nostri governanti farci credere che i russi o i cinesi o anche i migranti ci invaderanno, piuttosto che ammettere di essere incompetenti, corrotti, incapaci di gestire le sfide del mondo. Le guerre costano miliardi e sono soldi rubati, come diceva Eisenhower, a coloro che hanno fame e freddo. Rubati alla sanità, alla scuola, alla cultura, allo sviluppo delle nostre economie. Per giustificare questo furto, i politici – tanto di destra quanto di sinistra – sono pronti a mentire, a manipolare e intossicare il dibattito pubblico. I cittadini devono stare in guardia. Devono informarsi ed esigere che i loro governanti risolvano i problemi, anziché crearne altri.»

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Che cosa spinge il popolo americano ad avallare la riproposizione della necessità della guerra?

«La guerra è una droga pesante: non è facile disintossicarsi. Come dice un vecchio proverbio: se possiedi un grosso martello, tutti i problemi hanno la forma di un chiodo. Il patriottismo, l’eroismo del combattente, è il collante indispensabile per una società americana divisa, frammentata, classista. Non a caso, Hollywood ha dato un grande contributo all’edificazione del mito guerriero dell’America, anche se diverse pellicole più recenti vanno nella direzione opposta. La guerra è anche una fonte di profitti e di corruzione su larga scala. L’America è entrata in una fase del suo sviluppo industriale in cui l’intero sistema viene alimentato reinvestendo in spese militari il denaro dei cittadini, che siano le tasse o il debito. La guerra permanente è dunque la condizione di sopravvivenza di un’economia capitalista che si è sbarazzata delle regole e dei limiti previsti dal patto sociale. La legge del più forte regna anche nel mondo della finanza.»

La legge del più forte davvero non sostituirà la forza della legge??

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«Non sono ottimista: in effetti, la legge del più forte sta sostituendo la forza della legge. Lo abbiamo visto in Ucraina, a Gaza, ma anche nelle città americane dove uomini mascherati e armati danno la caccia a persone di colore sospettate di essere immigrati illegali. Lo vediamo anche al largo del Venezuela, dove imbarcazioni sospettate di trasportare clandestini sono bombardate e i loro passeggeri uccisi senza alcun processo. In Europa dobbiamo proteggerci contro questa deriva, che oggi i governi di destra tendono ad assecondare. Abbiamo anche nel nostro continente governi che sono tentati di seguire l’esempio di Trump e attaccano senza esitare la giustizia, la stampa, le minoranze e le istituzioni democratiche.»

Ci sono società (non la nostra per fortuna) in cui il costo sociale e quello psicologico della guerra è pesantissimo. Negli USA (come pure in Russia, per esempio), il numero di casi di PTSS è elevatissimo. Che mondo ne viene fuori?

«Nel 1946, negli Stati Uniti c’erano 16 milioni di veterani, gli ex combattenti. Oggi sono 18 milioni. Tra loro centinaia di migliaia sono affetti da disturbi psicologici. Per sopportare il ritorno alla vita civile, dopo quello che hanno dovuto vedere e fare sul campo di battaglia, ricorrono alla droga, all’alcol, ai farmaci. È la stessa cosa in Israele dove, per la prima volta nella sua storia, lo Stato ebraico si è lanciato in un’operazione militare di lungo periodo, e richiama ripetutamente i riservisti. Sono generazioni di uomini e donne che escono segnate dalla guerra. Sia che si chiudano in un’armatura di negazione morale, sia che provino un profondo e magari rimosso senso di colpa, quell’esperienza li ha cambiati per sempre. Perché in guerra non si salva nessuno: né le vittime, né i carnefici.»

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Lei dice che l’America “è malata delle sue guerre”. Com’è possibile che l’Europa continui a fingere che così non è?

«L’Europa ha perso la memoria. I suoi governanti attuali giocano con idee e concetti di cui non comprendono la portata. Churchill diceva: “Parlare, parlare e ancora parlare, piuttosto che combattere”. E Villepin, il ministro francese degli Affari Esteri, dichiarava davanti all’ONU: “La guerra è sempre l’ammissione di un fallimento”. L’Europa ha perso la memoria perché non ricorda più le tragedie che l’hanno insanguinata. E non ricorda nemmeno, o non ne ha compreso la portata, i ripetuti fallimenti degli americani quando hanno usato la forza in Vietnam, in Iraq, in Afghanistan. Siamo diventati vassalli dell’America perché i nostri governanti si sentono deboli e impauriti di fronte a situazioni come la crisi Ucraina o la destabilizzazione del Medio Oriente. E così, si rifugiano nella logica dei mercanti d’armi. Ottimo affare per gli Stati Uniti, primo produttore ed esportatore di armamenti e sistemi militari. Ma così noi perdiamo l’occasione di mettere a frutto i nostri millenni di storia e di cultura, che ci consentirebbero di inventare percorsi nuovi di conciliazione e di persuasione.»

Il colonialismo è uno dei peccati originali. Ci fa qualche esempio dei disastri che ancor oggi ne derivano?

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«Basta dare un’occhiata all’Africa, un intero continente alla deriva, o al Medioriente attuale, frutto della spartizione coloniale dei britannici e dei francesi e ancora continuamente messo a ferro e fuoco, per individuare i segni dell’eredità del colonialismo e dell’imperialismo. La logica della forza e la negazione del diritto dei popoli all’autodeterminazione hanno scatenato e ancora alimentano tragedie senza fine.»

Cosa può realmente cambiare il corso della storia di quella martoriata terra che è la Palestina?

«L’unica soluzione alla questione palestinese è la fine dell’occupazione israeliana delle terre che erano state destinate a uno Stato palestinese. Dalla conferenza di Losanna nel 1949 a oggi sono stati elaborati una trentina di piani di pace per questo piccolo territorio. Il diritto internazionale ha stabilito l’esistenza di Israele entro i confini del 1967 e questo non può essere messo in discussione. Il diritto internazionale ha anche deciso la creazione di uno stato palestinese e questa decisione attende ancora la sua piena attuazione. L’espansione delle colonie in Cisgiordania, l’assedio e la distruzione di Gaza sono gli ostacoli fondamentali alla pacificazione della zona. La soluzione a due stati non è più praticabile. Non lo era già alla sua nascita, perché prevedeva una separazione dei popoli che condividono la Palestina. Oggi occorrono il coraggio e l’intelligenza di difendere una soluzione di cooperazione, cioè di confederazione dove ognuno dei due popoli viva nel rispetto dei diritti dell’altro. Un sogno lontano? Forse, ma è sul terreno dei sogni, con la buona volontà e la capacità di immaginare il futuro, che si costruisce la realtà.»

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A proposito della brutalità della guerra. Concordo con lei che quanto accaduto il 7 ottobre 2023 in Israele ha solo “risvegliato demoni coltivati da decenni”. Quali sono quei demoni?

«Non dobbiamo dimenticare che, anche prima della nascita dello Stato di Israele nel 1948, il progetto dei padri fondatori dello Stato ebraico, e in particolare di Ben Gurion, era cacciare le popolazioni autoctone, anche con la forza. Allo stesso modo sono nati gli Stati Uniti: massacrando le popolazioni autoctone. Non c’è dunque da sorprendersi che la popolazione israeliana, a parte una piccola minoranza, sia in favore di una soluzione radicale del problema palestinese, che includa l’annessione della Cisgiordania e la distruzione completa della Striscia di Gaza.»

In che modo la corsa agli armamenti mina le basi stesse delle democrazie che vi prendono parte?

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«Le armi hanno una logica che la politica non controlla. Se un Paese produce armi, è destinato a servirsene. Sono le armi che dettano il percorso della politica e non la politica che decide dell’uso del suo arsenale. Perciò, il riarmo va in direzione opposta rispetto allo sviluppo democratico delle società. Conduce alla militarizzazione della vita civile, come si constata negli Stati Uniti. A sua volta, la militarizzazione apre la via all’uso della forza nel campo politico ed è un grave attentato alla democrazia. La militarizzazione comincia del resto con l’uso della violenza nel discorso politico. La rabbia, la violenza, le invettive lanciate dai politici sono un assaggio dell’uso della forza contro i cittadini.»

Trump e Eisenhower. Sembrano due universi lontani…

«Eisenhower aveva fatto la guerra e ne conosceva bene il prezzo. Trump è un narcisista complessato che tenta di risolvere i suoi problemi personali attraverso il potere che gli deriva dalla sua funzione.»

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