di Alessia de Antoniis
Nella città dove la bellezza non è mai solo ornamento ma linguaggio, torna la Roma Jewelry Week, giunta alla sua quinta edizione. Ideata e diretta da Monica Cecchini, la manifestazione è ormai un appuntamento imprescindibile nel panorama culturale romano: non una rassegna, ma un ecosistema di relazioni artistiche e umane dove il gioiello diventa strumento di pensiero, racconto e identità.
Con il patrocinio della Regione Lazio e dell’Assessorato Grandi Eventi Sport Turismo e Moda del Comune di Roma, in occasione del Giubileo 2025, la RJW sceglie come tema Gaudium, la gioia. Una parola che, nelle intenzioni della curatrice, travalica il significato religioso per farsi principio civile e filosofico.
“La gioia di questa edizione – spiega Monica Cecchini – è quella di avere con noi tantissimi artisti, jewelry designer, maestri orafi provenienti da tutto il mondo. È una gioia di condivisione e inclusione, che in questo momento storico considero un valore fondamentale. La gioia non è un lusso, ma un bene comune: nasce dal creare insieme.”
Il concetto di “Gaudium” diventa così il filo rosso che unisce scuole orafe, accademie e atelier provenienti da Italia, Europa e Sud America. La curatrice parla di creatività come linguaggio universale:
“La parola che accomuna tutte le culture presenti – continua Monica Cecchini – è creatività. Creatività è storytelling. Ogni gioiello racconta una storia, un progetto, una memoria. Non è un semplice accessorio, ma un segno di identità, di bellezza, talvolta anche di denuncia sociale.”
A incarnare questo spirito è il progetto Jewels for Freedom, in cui la bellezza si fa voce contro la violenza di genere.
“Abbiamo voluto fortemente questo progetto per dare voce a un impegno civile attraverso l’arte orafa. Anche un gioiello può diventare simbolo di lotta. La messicana Elina Chouet, con l’installazione Zapato Royos, ne è l’esempio più potente: un’opera che trasforma il dolore in memoria, la memoria in forza.”
La Roma Jewelry Week si è articolata in un ricco programma di mostre, installazioni e incontri diffusi in varie sedi: dal WeGIL alla Galleria Incinque, fino alle Corsie Sistine.
Tra le esposizioni più toccanti, quella dell’atelier Percossi Papi, storica bottega romana che da oltre cinquant’anni fonde arte, liturgia e mestiere.
L’esposizione alle Corsie Sistine si intitola In Splendore Sacri. Il gioiello dell’eterno tra guerra e pace: un percorso di straordinaria intensità che unisce fede, arte e memoria.
Gli oggetti sacri esposti – croci, tabernacoli, evangelari e reliquiari – sono stati creati per la cappella da campo del cappellano militare don Nicolas Hedreul, che per decenni ha accompagnato i soldati italiani nei teatri di guerra dall’Iraq all’Afghanistan.
“Abbiamo realizzato questi arredi liturgici – racconta Diego Percossi Papi – per ricordare i nostri caduti nelle missioni di pace. Oggi quegli stessi oggetti vivono nella chiesa di Santa Giuliana a Perugia e vengono usati ogni domenica. Non sono reliquie, sono parte della vita quotidiana di una comunità.”
Diego Percossi Papi parla con emozione della preziosità che non è vezzo, ma valore simbolico: “Il cappellano mi disse: ogni soldato si rispecchia in Cristo e Cristo era un re. Gli attributi devono essere regali, non per vanità, ma per dignità. La preziosità non è per la bellezza, ma per il significato. Ogni colore, ogni forma, ogni pietra ha un senso preciso. Niente è decorativo, tutto è linguaggio.”
La sua voce si accende quando descrive il tabernacolo sopravvissuto a un bombardamento a Kabul: “È rimasto intatto, l’unico oggetto a salvarsi mentre la chiesa veniva distrutta dalle fiamme. Ecco perché parlo di segno di pace: la materia, quando nasce da un gesto puro, resiste a tutto.”
Percossi Papi riflette anche sul senso profondo del mestiere, in un dialogo che sembra una lezione di estetica applicata: “Nel nostro lavoro la tecnica ha una sua poetica. Ogni difficoltà tecnica diventa invenzione. Ma ciò che guida tutto è la storia: sapere chi siamo, cosa eravamo e cosa vogliamo lasciare. Un gioiello nasce da tre elementi: la committenza, il faber, ossia l’artigiano, e il materiale. La parola chiave è rispetto: rispettare chi lo chiede, rispettare se stessi, rispettare la materia.”
“Ogni materiale è nobile. Anche il più umile. Il segreto è non tradirne l’essenza: la pietra è statica, l’acqua è mobile. L’artigiano deve ascoltare la natura di ciò che lavora, perché è lì che abita la sacralità.”
A ottant’anni, il maestro parla del proprio percorso con la lucidità di chi ha attraversato il tempo trasformandolo in arte: “Sono un autodidatta. Ho iniziato in strada, con pochi strumenti. Ogni problema tecnico per me era una crescita. È così che si impara a rappresentare la realtà. E ogni volta che provo a rifare un oggetto già creato, non riesce mai uguale: manca quel momento irripetibile in cui l’emozione si trasforma in materia. Il gioiello è proprio questo: un’emozione fissata nel tempo.”
In un’epoca che spesso confonde il lusso con l’apparenza, la Roma Jewelry Week restituisce al gioiello la sua dimensione più autentica: quella di testimone e custode.
Per Monica Cecchini, “è un linguaggio che attraversa le culture, unisce le generazioni e ricorda ai giovani che la manualità non è un retaggio del passato, ma un sapere da reinventare. Bisogna riportarli in bottega – dice – perché la vera gioia nasce dal fare.”
Ecco, forse è proprio questo il senso profondo di Gaudium: la gioia come atto di consapevolezza, la bellezza come resistenza culturale, il gioiello come voce civile.
Un linguaggio antico che torna a parlare al presente, ricordandoci che persino l’oro può farsi preghiera.
 
  
  
  
  
  
 