Lady Day al Teatro Greco di Roma: la voce come vendetta
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Lady Day al Teatro Greco di Roma: la voce come vendetta

Al Teatro Greco fino al 9 novembre, Mariangela D'Abbraccio e Maurizio De Giovanni restituiscono a Billie Holiday il diritto all'imperfezione

Mariangela D'Abbraccio - Lady Day (Billie Holiday) - al teatro Greco di Roma 4/9 novembre 2025 - recensione di Alessia de Antoniis
Mariangela D'Abbraccio - Lady Day (Billie Holiday)
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5 Novembre 2025 - 19.44


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di Alessia de Antoniis

Le cose intere non suonano, le crepe fanno suonare la musica. In questa frase, che attraversa come una scheggia il monologo scritto da Maurizio De Giovanni per Mariangela D’Abbraccio, si condensa l’intera poetica di uno spettacolo che rifiuta ogni forma di consolazione estetica. Lady Day – al Teatro Greco di Roma fino al 9 novembre – non è un tributo nostalgico a Billie Holiday, ma un atto di riappropriazione politica della sua voce, quella voce che l’artista stessa definiva la mia vendetta.

De Giovanni costruisce un testo che procede per accumulo emotivo, scandendo le tappe di una vita che non cerca pietà ma testimonianza. Non c’è linearità narrativa nel monologo, ma una struttura circolare, quasi ossessiva, che torna sui nodi irrisolti: la povertà ad Harlem senza romanticherie, il razzismo quotidiano – Non serviamo le negre -, la violenza domestica mascherata da amore, l’eroina come amica che sussurra: riposa. E soprattutto Strange Fruit, che qui non è solo una canzone ma un urlo, un pugno nello stomaco, una denuncia.

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La forza del testo sta nella sua capacità di tenere insieme il particolare biografico e l’universale politico senza mai cadere nella generalizzazione. Quando Holiday/D’Abbraccio racconta di essere stata lasciata fuori da un motel dopo aver cantato per un pubblico bianco, non c’è retorica dell’indignazione: solo la constatazione asciutta, devastante, di chi ha imparato che il palco è l’unico luogo dove può esistere pienamente.

Mariangela D’Abbraccio affronta il ruolo con una scelta interpretativa coraggiosa: non imita la Holiday roca e spezzata degli ultimi dischi, ma ne incarna la tensione interna. La sua voce delicata, penetrante, diventa lo strumento per esplorare non la superficie dell’icona ma la profondità della donna. Nei momenti di maggiore intensità, quando il testo si fa più aspro, D’Abbraccio non alza mai il volume: comprime, trattiene, lascia che il dolore filtri attraverso le pause cariche di silenzio.

Un testo così viscerale potrebbe travolgere lo spettatore in una spirale di dolore. Ma la regia di Francesco Tavassi sceglie la sottrazione. È nei vuoti che lo spettacolo trova la sua cifra più riuscita. Il duo musicale – piano (Mattia Niniano) e contrabbasso (Dario Piccioni) – non accompagna la narrazione ma la contrappunta, creando uno spazio sonoro dove il contrabbasso, in particolare, vibra come un corpo che ricorda, che porta impresse le ferite.

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L’ambientazione in un locale notturno svuotato, una sorta di luogo post-mortem, uno spazio tra la vita e il ricordo, isola l’attrice e insieme la espone. Questa nudità scenografica obbliga la D’Abbraccio a una presenza totale: ogni gesto, ogni inflessione vocale, ogni respiro diventa significante.

Il rischio di un tale approccio minimalista è sempre la monotonia, il peso eccessivo affidato alla parola. Lo spettacolo non sempre riesce a evitare questo pericolo: alcuni passaggi, soprattutto nella parte centrale dove si accumulano gli episodi di violenza e umiliazione, rischiano di schiacciarsi sotto il proprio peso tematico. La ripetizione, voluta e necessaria al testo, rischia di diventare ridondanza emotiva.

Ma è nel livello metatestuale che Lady Day raggiunge la sua potenza più dirompente. De Giovanni fa dire a Holiday: Hanno levigato, addolcito, tagliato. Hanno preso la mia vita e l’hanno resa una versione di me, più comoda, più vendibile. È una dichiarazione di guerra contro ogni forma di riscrittura tesa a trasformare le vite difficili in tristi, bellissime favole. Lo spettacolo rivendica il diritto all’imperfezione, alla verità scabra, alla voce che trema perché ha attraversato troppo.

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Questo rifiuto della levigatura ha conseguenze anche estetiche: D’Abbraccio non cerca la bella scena, non indulge nel patetico. Quando parla dell’ultimo ricovero, con le manette al letto d’ospedale, non c’è pathos ma rabbia compressa; la stessa che Holiday ha sempre trasformato in ritmo.

Lady Day è uno spettacolo con le sue crepe. Non sempre trova l’equilibrio tra intensità e misura, tra denuncia e drammaturgia. Ma nella sua stessa fragilità ritrova la lezione della sua protagonista: ciò che è rotto suona più vero. La crepa, ancora una volta, fa suonare la musica.

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