Dal Salento Luigi Mariano porta in scena la canzone d’autore e qualche cover, tra Springsteen e Gaber
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Dal Salento Luigi Mariano porta in scena la canzone d’autore e qualche cover, tra Springsteen e Gaber

Prossimo appuntamento dal vivo il 29 novembre al Boom di viale Campania a Milano

Dal Salento Luigi Mariano porta in scena la canzone d’autore e qualche cover, tra Springsteen e Gaber
Giordano Casiraghi
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7 Novembre 2025 - 00.31


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di Giordano Casiraghi 

Tre dischi all’attivo per Luigi Mariano, cantautore di Galàtone che vive tra il Salento e Roma, ma suona ovunque in tutt’Italia, da solo o con i suoi musicisti, portando i propri spettacoli in luoghi d’ascolto: teatri, club di qualità, chiostri, piazzette, ville storiche. Prossimamente anche una data milanese, il 29 novembre al Boom di viale Campania. Amore celebrato per Bruce Springsteen di “Nebraska” che lo porta all’adattamento in italiano dei brani di Bruce Springsteen, arrivando a completarne una sessantina nel giro di vent’anni. Da allora, porta in giro uno spettacolo acustico, da solo tra piano e chitarra, basato proprio su questi adattamenti musicali dei testi del Boss: “The Italian side of Springsteen”. La versione in italiano di “Matamoros banks” è stata inserita nel doppio cd “For you 2 – a tribute to Bruce Springsteen” dedicato al rocker del New Jersey.  È Massimo Bubola che lo chiama per incoraggiarlo a proseguire nel lavoro intrapreso, poi arrivano le collaborazioni con Simone Cristicchi e Neri Marcorè. Dal 2006 rappresenta nei piccoli teatri italiani, con grandi consensi e apprezzamenti, il suo spettacolo “Chiedo scusa se parlo di Giorgio”, un appassionato omaggio a Gaber, tra i suoi maestri più amati. Tre gli album ufficiali: “Asincrono” (2010),  “Canzoni all’angolo” (2016) e “Mondo acido” (2022).

Dopo l’ultimo album “Mondo acido” uscito nel 2022, cosa bolle in pentola? Nuove canzoni già pronte?
Dopo “Mondo acido”, di canzoni nuove ne ho scritte varie e altre ne ho da parte, tra quelle che ho escluso (a volte ingiustamente) dagli album precedenti. Però mi rendo conto di aver sempre bisogno di tempo per estrarre, dal gran calderone dei nuovi brani inediti, la silhouette precisa di un nuovo disco. Avverto infatti l’esigenza di trovare, nella matassa aggrovigliata delle nuove canzoni (spesso diverse l’una dall’altra), un minimo di “sentiero comune”, che possa farle stare assieme senza sgomitare. Quindi mi prenderò ancora un po’ di tempo per scriverne altre e per individuare un percorso.



Cosa presenterai a Milano il prossimo 29 novembre al “Boom” di viale Campania?
Per vari motivi, col nuovo disco, non ho ancora avuto occasione di fare un vero concerto milanese come dico io. Quindi ci tengo a presentare in particolare il disco “Mondo acido” (Esordisco edizioni), che è suonato in studio interamente dalla band di De Gregori, arrangiato da uno dei suoi migliori musicisti, Primiano Di Biase, e con la produzione artistica di Alberto Lombardi. Mi porterò dietro un po’ di copie per i fan milanesi e della Lombardia. La scaletta è comunque piena zeppa anche di brani tratti dagli altri miei due dischi, che tra l’altro hanno avuto molta fortuna, non solo tra il mio pubblico più affezionato, ma anche nelle giurie dei premi (Premio Bindi, Ciampi, Daolio, Lunezia) e nelle recensioni dei critici musicali. Completerò la scaletta con qualche omaggio ai miei maestri, che sono i grandi cantautori degli anni ’70.



Sai che in viale Campania ha abitato per lungo tempo Claudio Rocchi, un cantautore di altra generazione? Hai conoscenza di quello che sono stati i cantautori di quel tempo? Quali hai seguito maggiormente?
Non sapevo di questa coincidenza riguardo la casa di Rocchi in viale Campania, ma certo tutta quella generazione lì era formidabile e irripetibile. Ha rappresentato per me una vera e propria scuola, perché a 18 anni ho studiato la forma-canzone proprio attraverso i loro dischi, quelli di De Gregori, Gaber, Jannacci, Bertoli, Battiato, Pino Daniele, Dalla, Bennato, Rino Gaetano, suonando a casa, al piano, decine e decine di loro brani. Lo facevo sia per allenarmi a cantare, sia per essere via via più sciolto sullo strumento e sia soprattutto (da novello cantautore quale mi sentivo) per capire bene come si scrive una canzone, come girano gli accordi anche più complessi (ma chi l’ha detto che i cantautori scrivessero armonie sempre banali?) o come può svilupparsi una melodia.

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Che differenza trovi tra le nuove generazioni di cantautori, rap a parte, e quella del passato? Nel modo di affrontare gli argomenti, che siano d’amore o di attualità sociale.
Credo che, col tempo, si sia persa un po’ per strada la profondità delle immagini, il coraggio e sicuramente il bisogno incessante di cultura. Nelle vecchie generazioni di cantautori magari, qua e là, c’era anche presunzione. Ma loro, in parte, se lo potevano permettere, perché conoscevano bene l’arte e la letteratura, conoscevano a fondo la società, le persone e gli individui, c’era in giro più vita vissuta, più esperienza diretta, più consapevolezza e più idee, magari a volte sbagliate, ma che comunque palpitavano di passione. Trovo che, col tempo e col progresso, molti di questi modi di essere e di vivere siano via via spariti, sostituiti da una maggiore superficialità. Oggi, troppo spesso, si scrive senza aver davvero letto o ascoltato quasi nulla; si parla (e si pontifica a raffica, specie sui social) senza avere vere idee, ma solo per far sapere di esistere; e si argomenta di fatti che non si sono mai vissuti. Si resta chiusi a chiave dentro stanzette minuscole, ipnotizzati davanti allo schermo di un PC o di un cellulare, lontani anni luce dalla realtà, che assume sempre più i contorni sfumati del virtuale e dell’astratto. E si ha pure il coraggio di essere presuntuosi, davanti a questo nulla. Oggi le canzoni non vengono più scritte imprimendo loro una vera forza transgenerazionale o duratura. Non si è più capaci, forse. O semplicemente non lo si cerca più, perché sono cambiate le esigenze del pubblico. I brani tendono a vivere giusto il tempo di pochi ascolti, per poi scriverne altre. Preferisco le canzoni “maratonete”, che resistono al tempo, piuttosto che quelle centometriste. Qualche volta, per fortuna, qualcuno ne scrive ancora.



Nel tuo album “Asincrono” del 2010 canti di promesse elettorali (Canzone di rottura), di televisione in mano ai governi (Rai libera!), poi nei successivi hai allentato l’interesse per argomenti politicamente diretti. È stata un’evoluzione di linguaggio? Tempi che cambiano? Anche i tuoi colleghi negli ultimi anni stanno un po’ alla larga da questi temi. Come mai?
Non posso rispondere per i miei colleghi, ognuno ha la sua storia e il suo carattere. Ma in effetti anche io ho percepito ciò che tu sottolinei. Mi rifiuto di pensare che sia paura o il “tengo famiglia”, perché saremmo alla frutta. Non ci credo. Da parte mia, in generale, è subentrato un po’ di umano disincanto rispetto all’utilità effettiva di un certo tipo di canzoni, sebbene io abbia anche affrontato questa forma (fresca e sbarazzina) nei brani scritti tra i venti e i trentacinque anni, poi confluiti nel mio primo album “Asincrono”. Tuttora li canto nei concerti e continuano ad essere attuali. Avendo però constatato, in parte, una modesta efficacia nel cambiare le cose, nonché il rischio-retorica (sempre dietro l’angolo), ho sentito dentro di me un momentaneo scollamento dalla forza intrinseca di quella “rabbia creativa”. È anche vero che poi, in uno degli ultimi brani (inediti) che ho scritto, Quando ci libereremo, quella rabbia mi è un po’ tornata. E ne sono stato molto molto felice. Ma resta ancora il terrore, da ipercritico di me stesso qual sono, che risultino meri sfoghi momentanei, utili solo a scaricare la coscienza.
Al momento ho avvertito il desiderio di spostare ben di più il mio interesse primario sull’individuo “singolo”, alla ricerca della propria identità nel mondo.Mi sembra un argomento fondamentale. Risolvere in modo sano questo snodo così importante per la crescita personale dovrebbe aiutare a costruire una società con meno problemi, in cui interagiscano tra loro persone risolte, soddisfatte della propria vita. Sono le uniche capaci di costruire una società matura e degna, dall’operaio fino al ministro. Ma questo è raro. La nostra società è malata di frustrazione e ingiustizie sociali. E i social network sono sfogatoi che ne rappresentano la cartina di tornasole. Come autore, mi sono prefisso un obiettivo: di incoraggiare, attraverso il racconto della mia esperienza personale, il passaggio dal disagio/dolore individuale a una forma di speranza /guarigione salvifica. E che questa guarigione possa poi, entrando in circolo, contaminare gli individui e diventare il più collettiva possibile.Quasi ogni mia canzone descrive questo sforzo ambizioso, non soltanto Rifiorirai dell’ultimo album.

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C’è un interesse per Gaber, nel primo disco, con la canzone Cos’avrebbe detto Giorgio? e poi Il singhiozzo, che fa venire in mente Il Tic di Gaber. L’hai mai visto dal vivo? Cosa ha mosso e cosa può muovere, ancora, la sua produzione di spettacoli, poi confluita anche nei dischi?
Non aver mai visto Gaber dal vivo è uno dei miei più grandi rimpianti. Del resto, quando ho scoperto il suo genio, ascoltando poi senza sosta tutto quello che aveva fatto, ero già quasi trentenne, lui era malato e purtroppo gli mancava ancora poco da vivere. Mi sono maledetto mille volte per aver conosciuto così tardi il suo fulgido e meraviglioso teatro-canzone, che è una pietra miliare della cultura italiana e che avrei voluto incontrare molto prima sulla mia strada. Ho cercato di farmi perdonare sia scrivendo alcune canzoni (come i titoli da te citati) che un po’ si rifacevano a quel mondo, quasi a mo’ di affettuoso omaggio e ideale prosecuzione di un discorso; e sia ideando, nel 2006, un vero spettacolo in onore del sig G, “Chiedo scusa se parlo di Giorgio”, che porto in giro ovunque, parallelamente ai miei concerti da cantautore. Lo considero quasi un mio dovere morale. Neanche sto ora a soffermarmi troppo sull’importanza mastodontica che l’opera di Gaber e Luporini continua ad avere nel nostro presente (e, sono sicuro, anche nel nostro futuro) per l’incredibile attualità di tutti i temi trattati, al punto che alcuni monologhi degli anni ’70, come “La paura” o “L’America”, sembrano scritti oggi e sono dei severi schiaffoni alle contraddizioni umane, all’ipocrisia, all’omologazione delle idee, agli opportunismi e ai trasformismi.
Gaber serve come il pane, ogni giorno.

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E, come contraltare, Bruce Springsteen: quello di “Nebraska”, quello intimo delle ballate, come sono tutte le tue canzoni. Ma the Boss è anche rock tirato e sudore, ti piace anche quello? Hai in mente di inserire altre cover, dopo Il fantasma di Tom Joad dal secondo album “Canzoni all’angolo”?
Ho scoperto Springsteen a sedici anni, traducendo le sue canzoni più introspettive e rimanendone molto affascinato. Mi era subito parso sulla scia di grandi cantautori americani come Dylan, Cohen, Tom Waits. Mi sono anche chiesto il perché di questa mia passione viscerale per lui. Credo che, al di là della sua musica, mi abbiano conquistato l’onestà e l’autenticità dell’uomo, le sue umili origini, la sua dignità. Ma forse, a colpirmi ancor di più è stata la contraddizione e bipolarità della sua anima, ben più tormentata di ciò che molti pensano: in lui convivono, infatti, sia la solarità della madre Adele, di origini napoletane, e sia l’ombrosa problematicità del padre Doug, depresso e alcolizzato, di origini irlandesi. Questo coesistere di caratteristiche così opposte ha dato vita, nei decenni, a una produzione di musica (oltre che di tipo di concerti) piuttosto varia e sfaccettata, con canzoni energiche e festose da un lato, contrapposte a ballate o folksong ben più introspettive e intimiste dall’altro. Ho sempre considerato irresistibile questo mix, innamorandomene a tal punto da aver adattato in italiano ben sessanta suoi brani, attingendo soprattutto al repertorio più riflessivo, perché più interessante dal punto di vista dei testi. Non è da escludere che io continui a inserire, in qualche mio album futuro, qualche mio adattamento di suoi brani. E comunque, prima o poi, farò magari proprio un disco tutto in suo omaggio, un po’ come “Amore e furto” di De Gregori su Dylan.  



Andiamo nel Salento: cosa succede da quelle parti? Ci sono artisti che ti fanno compagnia? Che locali ci sono per suonare?
Il Salento arde di vita, pulsa e sembra non voler smettere. È musicalmente vivo e direi quasi indomito, un po’ come Napoli, Catania o la pianura padana. Si suona di tutto: c’è il jazz a livelli stratosferici, c’è il rock, c’è l’elettronica, c’è il rap, ci sono i cantautori.
Senza scomodare i soliti Negramaro, Dolcenera, Franco Simone o Al Bano, in generale vi è una quantità di talenti a dir poco impressionante, che tra l’altro hanno avuto spesso eccellenti carriere musicali in vari campi artistici, basti pensare alla pianista Beatrice Rana, a Carolina Bubbico, alla pianista Valeria Vetruccio, al sassofonista Raffaele Casarano e così via. Per quanto mi riguarda, l’estate suono tantissimo in giro per le piazzette, i chiostri e i castelli del Salento. Inoltre, assieme a due miei bravissimi amici cantautori, Mino De Santis e Gaetano Cortese, abbiamo anche messo su un progetto in trio, “Canzoni al tavolino”, con cui cantiamo a spasso per la provincia, suonando attorno a un tavolino, parallelamente ai nostri spettacoli personali.



A Roma invece quali possibilità ci sono per esibirsi? Che locali?
Anche Roma resta viva, pur con le sue enormi difficoltà e contraddizioni. Dopo l’epoca d’oro del Folkstudio, i cantautori hanno trovato rifugio in alcune realtà-salvagente che ancora ne preservano la dignità e l’identità, come in particolare l’Antica Stamperia Rubattino di Testaccio o L’Asino che vola, oppure ancora alcuni piccoli teatri come l’Arciliuto, che per anni hanno ricreato, nel pubblico, ascolto e attenzione.

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