Dall’infanzia difficile al mito immortale: la parabola di Jimi Hendrix, genio rivoluzionario di chitarra e rock
Top

Dall’infanzia difficile al mito immortale: la parabola di Jimi Hendrix, genio rivoluzionario di chitarra e rock

In Wild Thing. La breve, avvincente vita di Jimi Hendrix, Philip Norman racconta l’ascesa fulminea e tormentata del più innovativo chitarrista del Novecento, tra genialità e fragilità.

Dall’infanzia difficile al mito immortale: la parabola di Jimi Hendrix, genio rivoluzionario di chitarra e rock
Jimi Hendrix
Preroll

globalist Modifica articolo

7 Novembre 2025 - 22.33


ATF

di Rock Reynolds

Sono passati poco più di 55 anni da quel giorno cupo, il 18 settembre 1970, e il mondo fatica tuttora ad accettarne il verdetto. A soli 27 anni – già, il maledetto “Club dei 27”, quell’inquietante congrega di rockstar morte per eccessi a quell’età, una categoria plasmata da qualche giornalista sfaccendato in cui figurano, oltre a lui, Jim Morrison, Brian Jones, Janis Joplin e via dicendo – Jimi Hendrix, uno dei musicisti più geniali, innovativi e rivoluzionari del Novecento, smise di far parte di questo mondo, proiettandosi direttamente nell’Olimpo dei grandi. Nemmeno nei suoi sogni più ambiziosi e folli, avrebbe immaginato una traiettoria fulminea quanto tormentata come quella della sua esistenza terrena, segnata da un’infanzia difficile, senza una vera figura materna di riferimento e con un padre avaro di affetto, più propenso al bastone che alla carota, un uomo decisamente controverso.

Wild Thing. La breve, avvincente vita di Jimi Hendrix (Caissa Italia, traduzione di Elena Montemaggi, pagg 271, euro 24) di Philip Norman, già autore di Shout! Tutta la storia dei Beatles, uno dei libri essenziali sulle vicende del quartetto di Liverpool, descrive la parabola di Jimi dall’infanzia nella fredda Seattle alla morte in una desolata stanza d’albergo a Londra e persino ai poco nobili litigi per la sua eredità.

Seattle oggi ha un’aura di città illuminata, per aver dato i natali a Bill Gates, guru dell’informatica e per aver fatto da incubatrice al movimento musicale grunge, ma negli anni Quaranta e Cinquanta non era certo uno dei luoghi più luminosi degli USA, con il clima più piovoso del paese e scarse opportunità di crescita per i giovani. La famiglia di Jimi era quella che oggi si potrebbe definire “disfunzionale”; i fratelli minori, a partire dall’adorato Leon, erano sempre alle prese con i servizi sociali, il padre, Al, passava da un lavoretto all’altro e la madre da una bottiglia all’altra.

Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, per Jimi prendere in mano lo strumento a cui più di ogni altro avrebbe legato la propria immagine non fu semplicissimo: il padre non voleva perdigiorno in famiglia. Ma, quando le cose stanno scritte negli astri, ribaltarne il corso è impossibile e Jimi iniziò a suonare la chitarra e a pensare in grande, senza sapere bene come trasformare quei sogni in realtà. Quel ragazzo nero dalla pelle tutto sommato chiara e dal sangue misto (con una zia nativa), dalle mani enormi e dall’aria dinoccolata e timida, con una chitarra costantemente a tracolla, senza custodia, come se non volesse mai perdere l’istante creativo, era dotato di un talento non comune. Iniziarono ad accorgersene svariati cantanti di colore di grande fama, tra cui Isley Brothers, Curtis Knight, Ray Charles (che nel frattempo si era stabilito proprio a Seattle) e, soprattutto, uno degli autentici padri del Rock’n’Roll, l’istrionico Little Richard, nella cui band Jimi affinò la propria arte e apprese i rudimenti della vita da entertainer, fatta di musica ma pure di posture iconoclaste.

Leggi anche:  "Indomabili creature", il libro che riporta alla luce Anna Franchi

Per uscire dal guscio della limitante Seattle ci sarebbe stato bisogno di un colpo di fortuna vero, che avvenne sotto forma dell’incontro che avrebbe cambiato la vita di Jimi e la traiettoria della musica moderna: quello con Chas Chandler, bassista della band inglese degli Animals, stanco di andare in tour e di sopportare le bizze del leader Eric Burdon. L’incontro avvenne in un locale storico del Greenwich Village di New York dove Chandler – che stava maturando la scelta di abbandonare la carriera di musicista per passare a quella di manager – non capitò certo per caso. Il nome di Jimi aveva iniziato a circolare e Mike Bloomfield – non esattamente l’ultimo arrivato, dopo i fasti della via elettrica intrapresa, anche grazie a lui, da Bob Dylan – che, a sua volta, andò a sentire suonare Jimi, ebbe a dire, «Jimi sapeva già chi ero quel giorno e, davanti ai miei occhi, mi ha bruciato vivo».

Una sensazione che devono aver vissuto in tanti, a partire dalle grandi star inglesi che, dopo l’avvento dei Beatles, avevano colonizzato le classifiche americane. Il trasferimento a Londra facilitato da Chas Chandler, che nel frattempo era diventato manager ufficiale di Jimi, fece il resto. Chandler creò una band sulla falsa riga dei “power trio” a la Cream, tanto in voga in quel periodo. La Jimi Hendrix Experience doveva essere l’astronave in grado di sostenere le peripezie pirotecniche di quella sorta di alieno e di rispedirne l’energia cosmica in orbita. Perché, quando era sul palco, quel ragazzo nero garbato e timido pareva davvero provenire di un altro pianeta agli occhi e agli orecchi di chi assisteva a una sua esibizione.

Leggi anche:  L’Europa smarrisce la memoria della pace e torna a celebrare la guerra come strumento di identità e potere

Nessuno prima di lui aveva osato spingere i confini della chitarra tanto avanti. Il bassista Noel Redding e il batterista Mitch Mitchell, pur essendo ottimi musicisti, non vantavano certo il curriculum di Jack Bruce e Ginger Baker, ma nemmeno Eric Clapton, celebrato come un dio sui muri di Londra, avrebbe potuto competere con quell’astro nascente. Ciò che faceva Jimi con la chitarra deve aver tolto il sonno a molti: la sua naturalezza nell’improvvisare cascate di note fragorose che sembravano non trovare un’origine razionale nel mondo degli umani o nel riproporre in chiave personalissima la sofferenza del blues, strappando alla chitarra quei suoni che Eric Clapton aveva rubato a Muddy Waters e Robert Johnson, lo collocavano non su un gradino superiore ma, semplicemente, in un’altra dimensione. Jimi mostrò un’inusitata capacità di filtrare l’intero universo sonoro e restituirlo al mondo dopo averlo trasformato in un urlo di disperazione, una carezza cosmica, un atto d’amore.

Quattro anni di carriera sono pochissimi, ma Jimi fu una meteora solo per le cronache del tempo: il rock e, soprattutto, il suo strumento cardine, la chitarra, non sarebbero nemmeno pensabili senza di lui. Quattro anni, dunque, e tre album seminali: Are you experienced, con “Foxy Lady”, “Manic Depression” e “Fire” (una prima dimostrazione inequivocabili di cosa sapesse fare, insieme ai due singoli dall’enorme successo, una rivisitazione stralunata di “Hey Joe” e la formidabile “Purple Haze”); il capolavoro di maturità Axis: Bold as Love, con l’imperitura “Little Wing”, uno dei brani più suonati dal vivo in assoluto ed Elctric Ladyland, con quella versione di “All Along the Watchtower” che lo stesso autore, Bob Dylan (di cui Hendrix era una fan sfegatato) dichiarò, parco di elogi com’era, che fosse l’incarnazione giusta del brano.

Are you experienced uscì pochi giorni prima dell’album più celebrato della storia del pop, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles. Jimi, che dei Fab Four era un fan, suonò la title track dal vivo soltanto tre giorni dopo la sua pubblicazione, al Saville Theatre, un teatro del West End di Londra di proprietà di Brian Epstein, loro manager, alla presenza, tra gli altri, di George Harrison e Paul McCartney, che avrebbe dichiarato che quello era stato uno dei più grandi onori della sua carriera.

Leggi anche:  “La difficile maturità di Stefano Neri”: il doppio specchio di eros e potere nel nuovo romanzo (da prenotare)

Lo spettro dei Beatles si sarebbe manifestato a più riprese, non solo in ambito strettamente musicale. Un ambiente familiare complicato, con l’assenza pressoché totale della madre, schiacciata dal peso di responsabilità di cui non riuscì mai a farsi carico, accosta la fragilità di Jimi a quella di un altro gigante come John Lennon.

Forse sta anche in questo la sua instabilità sentimentale, oltre che nello stile di vita avventuroso delle rockstar del tempo. Nel libro, immancabili (forse pure un po’ stucchevoli) sono i riferimenti all’iperattività romantico-erotica di Jimi, di cui in effetti si è sempre favoleggiata una virilità sopra le righe, ma la rilevanza di tali performance ai fini artistici è tuttora da dimostrare. Eppure, fu proprio una delle sue fidanzate, l’ex-pattinatrice tedesca Monika Dannermann, a passare con Jimi le ultime ore della sua vita a Londra e a fornire svariate, contraddittorie versioni dei fatti.

Ma Jimi, morto soffocato dal suo vomito, ultimamente era stato lo spettro di se stesso. Eppure, i progetti non mancavano, a partire dalla creazione di uno studio di registrazione all’avanguardia per dare al suo estro una prateria di libertà creativa e dalla fondazione di un nuovo gruppo più idoneo ai suoi slanci. Jimi si sentiva intrappolato negli Experience, a suo dire ormai poco più di un cliché, malgrado in qualche modo li avesse plasmati lui stesso, e aveva iniziato a esplorare atmosfere nuove, tornando indietro per andare avanti: alle sonorità sincopate del popolo nero, con la Band of Gypsies. Nel frattempo, concerti in piccoli club come pure di fronte alle folle oceaniche dei festival di Monterey, Woodstock e Isola di Wight.

Della sua vita e, soprattutto, della sua morte si è detto e scritto tanto. Wild Thing. La breve, avvincente vita di Jimi Hendrix, fortunatamente, non è l’ennesimo tentativo di fare gossip intorno alla sua figura e contribuisce a collocarne la grandezza artistica nel giusto contesto. A partire dallo splendido ritratto di copertina che Amanda Lear, sua amica in vita, ha concesso all’edizione italiana del libro.

Native

Articoli correlati