di Alessia de Antoniis
Novant’anni e la lucidità di chi ha vissuto intensamente ogni giorno. Mogol, l’uomo che ha trasformato le emozioni in poesia e la memoria in canzoni indimenticabili, non ha perso un grammo della sua passione civile. Lo abbiamo incontrato ieri all’Auditorium Parco della Musica, prima dell’evento “Sulle ali di un sogno: Mogol racconta Battisti“, una serata organizzata per raccogliere fondi destinati alle attività della Croce Rossa Italiana a supporto delle donne vittime di violenza. L’iniziativa, realizzata in collaborazione con Frimm Immobiliare in occasione del suo anniversario, ha trasformato una celebrazione aziendale in un momento di impegno concreto. E le parole del maestro sono un pugno nello stomaco: chiare, dirette, necessarie.
Maestro, la violenza contro le donne è un’emergenza che non accenna a diminuire. Perché è così importante parlarne?
Mi meraviglio che non lo facciano tutti. Non abbiamo mai vissuto un momento così terribile. Alle donne dobbiamo tutto: nella gestazione fanno circa il 99% del lavoro. Uccidere una donna… non c’è un’infamia peggiore. Commettere un femminicidio è una vigliaccheria vera, perché il vigliacco non ha il coraggio di continuare da solo. La donna ormai è diventata parte di se stesso, quindi è aggrappato a lei: se lei sparisce, deve ucciderla. È una cosa terribile. E poi ho sentito delle canzoni che parlano delle donne in modo orribile, cose che non avevo mai sentito in vita mia. Alle donne dobbiamo il più grande rispetto. È allucinante. Una regressione mai vista prima.
La sua voce si fa più morbida quando gli chiediamo di raccontarci la genesi di alcune delle canzoni che hanno segnato la colonna sonora di intere generazioni.
Come nacque “Emozioni”?
Lucio Battisti mi mandò un nastro cantato in finto inglese. Ero in campagna, dove avevo una casa, e fuori nel giardino c’era un casolare piccolo dove andavo a lavorare. Cominciai a scrivere questa canzone. In venti minuti scrissi tutta la prima parte. Poi arrivò mia moglie e mi disse: ‘Giulio, dobbiamo partire, i bambini sono già in macchina sulla 500’… Dovevamo andare a trovare i suoi genitori in Piemonte. Avevo appena finito di scrivere la prima parte e rimasi indeciso. Ma come potevo lasciare i bambini in macchina e non partire? Così partii, ricordando tutto quello che avevo scritto. In due ore e mezza, mentre guidavo senza penna, senza matita, senza giradischi, ricostruii tutte le frasi che avevo imparato a memoria. Arrivai vicino a Ovada, salii nella camera dei bambini e scrissi tutto quello che avevo pensato. Quindi ci misi 20 minuti per la prima parte e due ore e mezza per la seconda.
Questa sera sarà sul palco insieme a Gianmarco Carroccia. Come è nata questa collaborazione?
Carroccia mi ha chiamato tramite l’impresario della nostra scuola per una serata. Sono andato, ho visto che era seguito da tanta gente e ho saputo da lui che aveva fatto il nostro corso. Io non lo sapevo: nella mia scuola abbiamo avuto più di 3000 allievi diplomati. Aveva imparato a cantare bene, in modo giusto. Da allora abbiamo cominciato a fare serate insieme che hanno avuto un grande successo.
Lei sostiene che cantare insieme faccia bene alla salute…
Esatto. Quello che faccio durante i concerti è stimolare la gente a cantare con noi, perché il corpo scarica endorfine. È quanto di più importante ci sia per la salute. Ho scritto un libro che si chiama ‘La Rinascita’, che parla di come non ammalarsi e non c’è niente che fa più bene che cantare insieme. La gente non sa queste cose, non si interessa di prevenzione primaria. Regna l’ignoranza: è come andare in giro senza vedere e sbattere contro tutti i muri.”
Tra le sue canzoni quali, tra quelle che canteremo insieme stasera, hanno un significato particolare?
‘Il tempo di morire’ è dedicata a tre donne che meritavano una carezza che nessuno ha fatto loro. È una canzone che parla di aiutare gli altri, che dovrebbe essere lo scopo della nostra vita. Perché se noi aiutiamo gli altri, stiamo agendo bene e non avremo più paura neanche di morire.
‘I giardini di marzo’ l’ho scritta pensando alla mia vita da bambino. Sono nato a Milano, in una strada che era la penultima delle vie della città, per cui era quasi campagna. Ho vissuto lì da bambino, felice. Nella strada passava un’auto ogni tre giorni e giocavamo a pallone con i golfini. Mi ricordo un vecchietto che coltivava un orto con un albero di pesche. Io mi mettevo davanti al buco che avevamo fatto nel recinto e dicevo agli altri ragazzini: ‘Mi raccomando, onestà, una sola pesca a testa’. Onestà… mentre andavamo a rubarle. Erano momenti di grande contentezza. Ho avuto la fortuna di sentirla cantata da 75.000 persone: quando vince la Lazio.
E “Con il nastro rosa”?
Il testo l’ho scritto per una cosa che mi è accaduta davvero. Ero fidanzato con una donna che si è sempre comportata bene. E un giorno, invece, disse una volgarità che mi bloccò. Una cosa che non avrei mai pensato che dicesse. Però, siccome le volevo bene, andai avanti per qualche mese ancora.
Qual è il suo primo ricordo d’amore?
Lo canto ne ‘La canzone del sole’: l’ho dedicata al mio primo amore. Lei aveva sei anni, io cinque. Poi c’è la parte più avanti nella canzone, ma quella me la sono inventata. La verità è che quell’amore c’era davvero.
Mogol sorride, gli occhi che brillano di ricordi e di presente insieme. Un maestro che continua a insegnare, con le parole e con l’esempio, che musica, cultura e solidarietà possono intrecciarsi per generare un impatto concreto sulla società. Una persona alla volta. Un centro antiviolenza e una casa rifugio alla volta.
