Visitare oggi la grande retrospettiva dedicata a Beato Angelico tra Palazzo Strozzi e il Museo di San Marco significa entrare in un territorio della visione che non appartiene soltanto alla storia dell’arte, ma all’esperienza interiore. È un percorso che mette il visitatore davanti alla complessità di Fra Giovanni da Fiesole, figura cardine del Quattrocento fiorentino, proclamato Beato nel 1982 da Giovanni Paolo II e da secoli riconosciuto come uno dei vertici assoluti della pittura sacra occidentale.
L’operazione curata da Carl Brandon Strehlke è imponente per la quantità delle opere – più di centoquaranta, provenienti da settanta istituzioni di tutto il mondo – ma anche perché molte di queste sono state riunite per la prima volta dopo secoli di smembramenti, alcuni risalenti al periodo napoleonico. La mostra è quindi una kermesse straordinaria: ripercorre e ricompone, quando possibile, pale d’altare e grandi polittici che per lunghi secoli erano stati divisi, restituendo al pubblico la visione integrale di composizioni fondamentali. Questa mole di opere rende la mostra una straordinaria opportunità per comprendere l’Angelico nella sua doppia natura: l’artista pubblico, immerso nella cultura umanistica della Firenze medicea, e il frate contemplativo, radicato nella vita conventuale domenicana.
A Palazzo Strozzi il percorso si apre con gli esordi ancora intrisi dell’eleganza tardo-gotica appresa accanto a Lorenzo Monaco, come dimostra il confronto con la Pala Strozzi, dove la raffinata vibrazione dell’oro, la linea serpentina e la preziosità dei panneggi non sono residui decorativi, ma strumenti di un pensiero visivo disciplinato. È un Angelico che nasce miniaturista e che porta nella grande tavola quello stesso controllo meticoloso del dettaglio che ritroveremo nei suoi capolavori maturi. Accanto a queste prime testimonianze spiccano i dialoghi con Masaccio, Filippo Lippi, Ghiberti e Michelozzo: non confronti didascalici, ma tasselli necessari a comprendere la posizione dell’Angelico dentro la trasformazione vertiginosa del linguaggio artistico fiorentino.
Tra le opere che segnano il percorso espositivo di Palazzo Strozzi si impongono alcuni nuclei centrali. La Pala di San Domenico di Fiesole, recentemente restaurata, rivela sotto le ridipinture cinquecentesche la sorprendente invenzione prospettica del trono della Vergine, segno di una piena assimilazione dei nuovi canoni spaziali. Il Tabernacolo-reliquiario di Santa Maria Novella, con i pannelli dei Funerali e dell’Assunzione della Vergine provenienti da Boston, appare come una soglia luminosa tra due mondi: da un lato l’eredità dell’iconografia medievale dell’oro, dall’altro una luce più mentale che naturale, già proiettata verso quella spiritualità atmosferica che diventerà tipica dell’Angelico.
Il rinnovato Trittico Francescano, restaurato dall’Opificio delle Pietre Dure, è un momento eccezionale: per la prima volta viene ricomposto, restituendo al pubblico la visione completa di un’opera che unisce solennità ieratica e agilità narrativa. Nel registro principale domina la quiete delle figure, ma è nella predella che l’Angelico rivela paesaggi ariosi, notturni meditativi e movimenti sottili delle figure, quasi una trasposizione pittorica della duttilità retorica dei predicatori domenicani.
Altri confronti, come quello con la grande Crocifissione sagomata del Pesellino proveniente dalla Cappella Antinori, servono a collocare Angelico nel dialogo serrato tra pittura e scultura che caratterizza la Firenze del suo tempo, mettendone in rilievo la capacità di trasformare la drammaticità narrativa in misura e luce.
Il vertice di questa prima parte del percorso è senza dubbio la ricomposizione quasi integrale della Pala di San Marco (1438–1443), commissionata da Cosimo de’ Medici. Diciotto erano le sue parti originarie, diciassette sono state qui riunite, un evento straordinario dal punto di vista filologico e visivo. La “conversazione sacra” che si dispiega attorno al trono della Vergine è una delle più alte costruzioni teologiche del Rinascimento: la perfetta disposizione dei santi, la matematica serenità dello spazio, il ritmo della luce che avvolge senza abbagliare, la quiete dei volti assorti. Qui emerge con chiarezza quella che gli studiosi hanno definito la “funzione mistica della luce” dell’Angelico: una luminosità che attraversa il mondo come una rivelazione.
È inevitabile che il passaggio tra il rigore monumentale di Palazzo Strozzi e l’intimità contemplativa del Museo di San Marco possa spezzare, per il visitatore, la continuità narrativa della mostra. Tuttavia, questa ‘frattura’ aiuta a mettere in evidenza la duplice natura di Angelico, costringendo l’osservatore a ricomporre mentalmente la coesistenza tra la Firenze pubblica e quella interiore del convento, tra l’artista immerso nella cultura umanistica e il frate dedito alla preghiera. L’esperienza richiede una concentrazione sospesa, simile a quella che accompagna una meditazione o una funzione liturgica: ogni distrazione rischierebbe di interrompere il filo sottile che lega le opere e le loro risonanze spirituali. In questo senso, la separazione spaziale diventa parte integrante della lezione visiva e spirituale che la mostra propone, invitando il visitatore a un passaggio di riflessione profonda, senza interruzioni, tra la monumentalità e l’intimità.
Si entra nello spazio dove Angelico visse e dipinse, dove ogni immagine fu pensata come strumento di meditazione quotidiana. Qui non c’è più bisogno di confronti o ricostruzioni: le opere parlano perché sono nel loro luogo naturale. L’Annunciazione del corridoio settentrionale, una delle immagini più celebri della storia dell’arte occidentale, mostra come la modernità prospettica sia completamente assorbita in una dimensione di sospensione silenziosa. Nulla è enfatico: il gesto dell’angelo è una vibrazione minima, la postura di Maria è un atto di ascolto. L’affresco vive di un equilibrio impossibile da tradurre in parole poiché rappresenta lo spazio mentale in cui quell’evento diventa percezione interiore.
Nelle celle dei frati le Crocifissioni, le Deposizioni, le figure dei santi non illustrano nulla: preparano alla meditazione. L’uso del colore è essenziale, il disegno disciplinato, la luce sembra nascere dall’interno delle figure più che colpirle dall’esterno. È qui che si comprende la ragione profonda della fama spirituale dell’Angelico, la sua mite umanità, la sua leggenda di artista che pregava prima di dipingere e non correggeva le opere perché le riteneva frutto di un’ispirazione superiore. Leggenda, certo, ma capace di cogliere la verità essenziale: la pittura, per lui, non era un mestiere né un decoro, era piuttosto un esercizio etico.
Questa mostra ha il merito di restituire il Beato Angelico nella sua doppia natura senza semplificazione. L’artista consapevole, pienamente immerso nella cultura umanistica e il frate che dipinge per invitare alla preghiera. L’enorme successo di pubblico registrato fino ad oggi conferma quanto il suo linguaggio sia ancora capace di parlare a un’epoca come la nostra, segnata dalla velocità del consumo visivo. Angelico insegna invece la lentezza dello sguardo, la delicatezza del dettaglio, la luce come rivelazione silenziosa. Si esce dal percorso con la sensazione di aver attraversato due città simultanee: la Firenze del Rinascimento, laboratorio di forme e idee, e la Firenze interiore costruita da un frate che ha fatto della pittura un modo di pensare e di pregare. Beato Angelico ci restituisce l’immagine come atto di conoscenza, come incontro tra l’umano e la luce che lo trascende.
