Dalle Black Hills a Cavallo Pazzo: viaggio tra memoria ferita, mito nativo e storia della resistenza Lakota

Nel libro Cavallo Pazzo, Larry McMurtry racconta l’eroe Lakota oltre il mito, ricostruendone umanità, contraddizioni e centralità nella memoria del suo popolo.

Dalle Black Hills a Cavallo Pazzo: viaggio tra memoria ferita, mito nativo e storia della resistenza Lakota
Cavallo pazzo
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18 Novembre 2025 - 12.29


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di Rock Reynolds

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Le Black Hills – le montagne sacre agli indiani Lakota, Cheyenne e Arapaho – e Pine Ridge – la riserva in cui i Sioux furono confinati sul finire dell’Ottocento, a due passi dal parco nazionale delle Badlands, una distesa di calanchi per chilometri e chilometri – distano una cinquantina di chilometri. Sono entrambe nel del South Dakota, ai confini con il Wyoming e il Nebraska. Eppure, si ha la sensazione di passare dal paradiso a un girone infernale. Il paesaggio delle Black Hills è rigoglioso: boschi di conifere a perdita d’occhio. Quello delle Badlands è un vero e proprio deserto di argilla.

Non è difficile immaginare la desolazione dei Lakota, costretti ad abbandonare lo splendore delle praterie del Wyoming e la straordinaria vegetazione delle Black Hills per vivere in quel luogo inospitale, con la chiara sensazione di essere stati ancora una volta ingannati dall’uomo bianco.

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E proprio alle Black Hills fanno visita ogni anno milioni di turisti che vogliono farsi una foto sotto Mount Rushmore, la montagna trasformata nella gigantesca statua dei volti di quattro presidenti storici: George WashingtonThomas JeffersonTheodore Roosevelt e Abraham Lincoln. Peccato che quello che, con i soliti slanci patriottici, è stato ribattezzato “Tempio della Democrazia”, celebri indirettamente la cancellazione della cultura nativa da parte dei bianchi. Nelle intenzioni di chi aveva per primo concepito l’idea di trasformare una montagna in un monumento all’epopea del West, tra le facce scolpite nella roccia avrebbe dovuto esserci quella di Cavallo Pazzo, una vera e propria leggenda locale. E i lavori per crearne uno iniziarono pochi anni dopo il completamento del Mount Rushmore National Memorial. Il monumento sembra una sorta di Sagrada Familia dei nativi: un cantiere eterno. A sua volta frequentatissimo.

Tutto questo per parlare di un interessante libro, Cavallo Pazzo (Einaudi, traduzione di Gaspare Bona, pagg 134, euro 17) di Larry McMurtry, un grande della letteratura a stelle e strisce. La sua epopea western, Lonesome Dove, vale una carriera. In realtà, McMurtry vanta un palmares non indifferente, con tanto di premio Pulitzer proprio per quel romanzo, oltre che un Oscar per la sceneggiatura non originale di Brokeback Mountain e altre statuette vinte con film tratti da vari suoi romanzi.

Il suo Cavallo Pazzo non può definirsi esattamente una biografia del grande Lakota, noto ai più per aver sbaragliato il generale Custer nella battaglia di Little Big Horn, forse la più umiliante disfatta nella storia dell’Esercito degli Stati Uniti, semplicemente perché la vita di Cavallo Pazzo è costruita intorno a leggende, sentito dire e ricostruzioni fantasiose.

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Assurto a simbolo dello spirito libero, ribelle, indomito dei nativi americani, Cavallo Pazzo incarna l’essenza stessa del pellerossa ben più di altri nomi altisonanti come Toro Seduto (assassinato in circostanze analoghe a quelle di Cavallo Pazzo), Nuvola Rossa (più propenso di lui alla negoziazione con i visi pallidi) e Geronimo (morto in cattività per le conseguenze di una caduta da cavallo). La sua leggenda si è forgiata soprattutto grazie all’aura di mistero che lo ha sempre accompagnato, persino in vita, considerata l’abitudine a fare sempre di testa sua e a trascorrere lunghi periodi nell’isolamento più assoluto.

È come se Larry McMurtry abbia avuto in animo di smitizzare la figura di questo grande personaggio, lasciandone intatto il fascino, ma, al tempo stesso, mondandolo nel limite del possibile di tutti i costrutti immaginari creati intorno a lui dai suoi seguaci quanto dai suoi detrattori, da altri nativi così come da uomini bianchi, da chi lo ha conosciuto, ma non serba ricordi in grado di resistere al tempo a chi, viceversa, ne ha solo sentito parlare, ma pretende di tramandarne le gesta. Per riuscire nell’intento, McMurtry utilizza un linguaggio che a qualcuno potrebbe addirittura sembrare arido, ma che è perfettamente funzionale allo scopo, e fa piazza pulita di luoghi comuni e di informazioni spurie, soprattutto delle ricostruzioni fatte da testi di grande fama, a partire dalla biografia di riferimento, Cavallo Pazzo: lo strano uomo degli Oglala, pubblicata da Mari Sandoz nel 1942, «un ponderato e sensibile studio di Cavallo Pazzo come uomo, nonché dello stile di vita dei Sioux».

Perché, che «ci piaccia o no, questo è ciò che succede con gli eroi… i fatti si avvizziscono nel calore del mito» e si prova grande frustrazione «quando, cercando di trovare quello che un tempo era solo un uomo» ci si vede «sbarrare la strada da una leggenda».

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E quella di Cavallo Pazzo nacque soprattutto per la necessità del suo popolo, ormai domato, di ricordare quell’uomo rimasto indomito e fedele alle proprie radici. Insomma, di appigliarsi a un’immagine se non vincente quantomeno edificante.

Di Cavallo Pazzo si sa che non fu mai un uomo di molte parole e che furono, piuttosto, storici e romanzieri a mettergli in bocca le frasi che gli si attribuiscono ancor oggi. Non fu mai realmente un capo, ma godette di un rispetto superiore a chi gerarchicamente gli era superiore. E McMurtry sottolinea un elemento che spesso sfugge: non è mai esistito un vero capo supremo dei nativi e neppure un sommo leader della nazione Lakota, troppo divisa e frammentata. Tra i nativi degli Stati Uniti le strutture di potere erano diverse da quelle dei visi pallidi.

Se è difficile ricostruire le parole di Cavallo Pazzo, figurarsi i pensieri. L’uomo a cui il suo popolo attribuisce, a torto o a ragione, la maggior parte del merito di aver sconfitto Custer e di aver, almeno per un breve tempo, precipitato nella depressione e nel terrore la nazione intera, non si sa nemmeno con certezza a che punto della battaglia campale di Little Big Horn sia sceso in campo. Quasi tutte le testimonianze raccolte concordano, però, nel tramandare lo sprezzo del pericolo da lui mostrato in quella circostanza. Lo storico Stephen Ambrose, autore del celebre Cavallo Pazzo e Custer, «ha… ragione quando dice… che gran parte del divertimento nello studiare la battaglia del Little Big Horn risiede nella possibilità di dare libero sfogo alla fantasia». Se per quello, sono contraddittorie persino le ricostruzioni della sua uccisione, avvenuta per mano di un rinnegato Sioux all’interno della riserva in cui aveva deciso di consegnarsi, conscio della condizione disperata del suo popolo, di fronte a diversi testimoni. Poco importa. McMurtry non lo scrive apertamente, ma lascia intendere che il mito di Cavallo Pazzo non venga minimamente scalfito neppure dalla prosaicità della sua morte, nel misero ufficio di un ufficiale del forte. In fondo, con lui morì pure lo stile di vita di un tempo dei nativi e anche per questo Cavallo Pazzo è «diventato il simbolo della libertà, del coraggio e della dignità dei Sioux».

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L’uomo che terminò a soli trentasette anni la sua esistenza terrena, trascorse quasi tutta la vita sulla prateria. Fu un uomo delle Grandi Pianure. Quel suo essere tutto d’un pezzo non gli consentì mai di scendere a compromessi. Non fino al fatidico giorno in cui si consegnò all’uomo bianco in un forte del Nebraska settentrionale, un paio di centinaia di chilometri a sud delle Black Hills. Nonostante si fosse già trasformato in una sorta di leggenda vivente, la sua fine fu banalmente frutto dell’invidia e del fastidio di alcuni elementi di spicco del suo popolo. Capì quasi subito di aver commesso un errore: «Per la prima volta… aveva fatto qualcosa in cui non credeva, qualcosa che andava contro la sua natura». Una sorta di sesto senso, se non una vera e propria visione, gli disse che aveva le ore contate. Interessante come McMurtry accosti i suoi foschi presagi a quelli di un altro grande rivoluzionario americano, Malcolm X che, come lui, «sapeva… verso la fine, che molto presto la sua stessa gente avrebbe bevuto il suo sangue».

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