"Volevo essere Marlon Brando": l'ultimo atto eterno di Haber

Alla Sala Umberto Alessandro Haber racconta sessant'anni di palcoscenico. «Il personaggio che mi ha ossessionato è un attore fallito»

Alessandro Haber - ph Tommaso Le Pera - Volevo essere Marlon Brando - recensione di Alessia de Antoniis
Alessandro Haber - ph Tommaso Le Pera - Volevo essere Marlon Brando
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21 Novembre 2025 - 20.03


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di Alessia de Antoniis

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Alla Sala Umberto – fino al 25 novembre –  Alessandro Haber non entra: viene convocato. Una serata in casa e una voce dallo schermo della tv: Benvenuto al tuo ultimo atto per fare il punto sulla tua esistenza. Il teatro diventa così un’aula di giudizio dove l’attore deve rendere conto di sessant’anni di vita e di scena, prima che cada il sipario definitivo.

La regia di Giancarlo Nicoletti aggira subito la trappola della “serata con Haber”. Volevo essere Marlon Brando è costruito come un rito metateatrale: niente monologo autocelebrativo, ma un congegno a quattro voci.

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Accanto ad Haber ci sono Francesco Godina, che incarna gli uomini e le ombre di una vita, e Brunella Platania, che attraversa le donne reali e immaginate. L’Archivista (Giovanni Schiavo) governa un “archivio digitale” che si apre come un vecchio album di famiglia: sullo schermo scorrono fotografie in bianco e nero della Roma anni Sessanta, frammenti di film, strade che non esistono più. Ogni immagine è una tessera di memoria che i tre comprimari usano per incalzare, correggere, smentire il protagonista.

Il verdetto finale – niente Paradiso, niente Inferno, ma reincarnazione eterna “nel corpo di un attore” – chiude il cerchio con ironia teologica: per uno come Haber l’eternità non può che coincidere con il palcoscenico.

Il mestiere dell’attore: ossessione, culo e fallimenti

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Nel flusso di aneddoti, la parte più solida è forse quella che riguarda il lavoro. L’Haber-personaggio racconta gli esordi con un candore feroce: la madre che insiste «L’attore non è un mestiere!»; lui che fa letteralmente stalking ai registi, si apposta sotto casa, frequenta i loro bar, s’infila sui set. La sua auto-definizione è programmaticamente eccessiva: «Sono un “purpurì”: ditemi cosa volete che faccia, sono qua, usatemi».

Il talento? Fondamentale, ma senza “culo” non si va da nessuna parte: il parcheggio trovato per caso che lo porta al provino con Pupi Avati e a Regalo di Natale diventa parabola perfetta sul ruolo del c…aso in una carriera. Al contrario, il rifiuto (per orgoglio o per paura?) di un piccolo ruolo in un film di Vittorio De Sica resta il grande rimpianto che rode ancora oggi.

Un flusso di coscienza sporco e notturno

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Il tratto più rischioso dello spettacolo è il linguaggio. Haber parla come in una telefonata delle tre di notte, tra pornografia casalinga, consigli sessuali non richiesti alle donne in platea (“non vi depilate là sotto, tornate al pelo”), racconti di amplessi interrotti da una telefonata di Nanni Moretti.

A tratti il flusso scivola nel cabaret maschile, nel compiacimento di una volgarità “alla vecchia maniera” che può risultare respingente, soprattutto quando si accumula senza contrappeso. Ma proprio quando sembra sul punto di esplodere in pura goliardia, il testo cambia improvvisamente tono.

Il caso più lampante è la telefonata alla madre: ubriaco, disperato, Haber lascia in segreteria un messaggio in cui le chiede se facesse sesso orale al marito. Un episodio che anni dopo, al funerale, si rovescia nell’intuizione più semplice: «Mia madre, prima di essere mia madre, era una donna».  Il passaggio dalla volgarità alla rivelazione affettiva, dalla barzelletta all’illuminazione, è il movimento più tipico dello spettacolo.

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Madri, figlie, amori e amici

La Platania attraversa in rapida successione le donne che hanno segnato il percorso di Haber: storie turbolente, gelosie, tradimenti, incontri che lo mettono in crisi (come quello con Eva Robbins), fino alla dichiarazione più netta: «Con le donne sono sempre stato un bastardo».

Quando però deve nominare l’amore più grande, non ha esitazioni: Celeste, la figlia. È lei a spostare, in tarda età, l’ago delle priorità: prima c’era il lavoro e poi tutto il resto; ora il contrario.

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Nella parte finale, lo spettacolo diventa una chiamata all’appello degli amici morti: Monica Scattini, Ennio Fantastichini, Flavio Bucci. Non c’è agiografia, ma una memoria condivisa fatta di vizi, generosità, paure. «Quello che rimane è la gratitudine: per uno sguardo, per un abbraccio, per una notte insieme, per una carezza». E, per una volta, Haber sembra quasi non recitare.

Da Marlon Brando a Gigi Baggini

«Per tutta la vita ho sognato di essere Marlon Brando, ma chi mi ha dato la forza di non arrendermi si chiama Gigi Baggini». Baggini non è un divo, ma un personaggio interpretato da Ugo Tognazzi: un attore fallito che, a una festa, viene preso in giro e invitato a ballare tip-tap sul tavolo. Lui accetta, felice, pur sapendo di essere lo zimbello.

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In quella figura Haber riconosce “l’emblema di tutti quelli che aspettano la loro grande occasione”, quelli che continuano a provarci senza garanzie. «È il personaggio di un fallito che mi ha ossessionato per anni». È a loro che sembra dedicato lo spettacolo: «Cercatemi negli occhi di chi ha una passione, di chi non ha paura di ballare sul tavolo per far ridere gli altri».

È forse la parte più onesta del lavoro di Nicoletti: quando il mito di Brando, irraggiungibile, perfetto, lascia il posto all’umanità sgangherata di Baggini; e Volevo essere Marlon Brando smette di essere la celebrazione di un attore e diventa una dichiarazione d’amore per tutti i mestieri fragili, precari, ossessivi che hanno bisogno del pubblico per esistere.

Grazie a un Haber che riesce a tenere insieme narcisismo e fragilità, spacconeria e senso di colpa, Volevo essere Marlon Brando è uno spettacolo eccessivo, ridondante, volutamente volgare che restituisce l’immagine di un artista e di una generazione.

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Si esce con la sensazione di aver assistito a una lunga telefonata notturna: a tratti fastidiosa, spesso divertente, improvvisamente struggente. Una chiamata in cui si dice troppo, ma in cui, come succede nelle notti importanti, qualcosa resta. E quello che resta è l’idea che, per chi vive di scena, la vera condanna felice è continuare a reincarnarsi ogni sera negli occhi di chi guarda.

E nelle orecchie ancora risuona la voce di Haber che graffia Vedrai vedrai di Luigi Tenco. «vedrai, vedrai, non son finito sai». Sembra condensare il desiderio più segreto di Haber, alla fine del racconto: non essere archiviato come monumento, ma restare ancora, ostinatamente, in gioco.

Volevo essere Marlon Brando

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Dal 18 al 23 Novembre 2025 alla Sala Umberto di Roma

produzione Goldenart Production | Teatro Stabile Del Friuli Venezia Giulia con il sostegno del Ministero Della Cultura – Direzione Generale Spettacolo in

collaborazione con il Festival Teatrale di Borgio Verezzi

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tratto dall’omonima opera autobiografica scritta da Alessandro Haber e Mirko Capozzoli, edito da Baldini&Castoldi

scene Alessandro Chiti | disegno luci Antonio Molinaro | musiche Oragravity 

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