di Alessia de Antoniis
L’educazione teatrale a scuola. Le reti teatrali italiane e la formazione dei docenti (Carocci, 2025), a cura di Claudia Chellini, si presenta come un volume di ricerca, ma in realtà è un libro profondamente politico. Dietro tabelle, grafici e analisi delle progettazioni dei docenti c’è un messaggio molto semplice: il teatro a scuola in Italia esiste già, funziona, produce cambiamenti nei ragazzi e negli insegnanti. A mancare è lo Stato.
Il progetto da cui nasce il libro – il protocollo INDIRE–ARTI del 2019 e i tre corsi nazionali “La relazione a scuola”, “Teatro? Parliamone!” e “Io sono te” – ha coinvolto migliaia di insegnanti, educatori e formatori teatrali di tutte le regioni, costruendo un modello di formazione mista che mette insieme teoria, laboratori e lavoro in classe. Nei numeri e nelle storie raccolte dalle autrici e dagli autori c’è un Paese che, lontano dai riflettori, usa il teatro per fare inclusione, contrastare dispersione, lavorare su corpo, emozioni, relazioni.
La conferenza stampa: il teatro parla chiaro, la politica balbetta
La mattinata romana organizzata da AGIS per presentare il volume e celebrare gli 80 anni dell’associazione è l’istantanea perfetta di questo cortocircuito: da una parte chi il teatro lo fa e lo porta nelle classi, dall’altra chi dovrebbe dargli gambe politiche e, invece, continua a rinviare.
Ad aprire è il presidente AGIS, Francesco Giambrone: «Non si possono formare spettatori consapevoli, cittadini migliori se non siamo nelle condizioni di partire dalla scuola». E aggiunge: «Troppo spesso si è parlato solo di risorse, le risorse sono fondamentali, però non sono solo le risorse il tema. Il tema è anche fino a che punto noi facciamo una bella battaglia perché nella formazione, cominciando dalla scuola, ci sia spazio per la musica, per il teatro, per le arti».
Due i pilastri che indica per il futuro: «La difesa delle sale» – i luoghi fisici dove la comunità si riconosce – e «formazione, scuola, i giovani, creare veramente spettatori e cittadini migliori». È il mondo dello spettacolo dal vivo che chiede alla politica di smettere di considerare il teatro per bambini e ragazzi come un extra, un lusso, e di riconoscerlo come pezzo di cittadinanza.
Il direttore generale Spettacolo del Ministero della Cultura, Antonio Parente, riconosce che «il tema dello spettacolo all’interno delle scuole […] è sostanzialmente affidato all’atteggiamento di intenzione spontanea di qualche docente, di qualche professore», e che l’obiettivo sarebbe quello di portare questo lavoro «in un piano più strutturato». Ammette, insomma, che finora è andato avanti tutto per merito dei singoli insegnanti, non grazie a una strategia nazionale.
Il punto politico arriva quando cita il Codice dello Spettacolo: «Occorrerà un ulteriore passaggio […] affinché, con la legge approvata dal Parlamento, ci sarà la possibilità di sviluppare un prossimo livello legislativo». “Ulteriore passaggio”, “prossimo livello”: formule eleganti per dire che, a sette anni dall’approvazione, il Codice dello spettacolo è ancora appeso ai decreti mancanti. Sui tempi, nessun impegno: solo l’auspicio che si possa «rafforzare il tema della riattivazione, di ristrutturazione dei luoghi e delle sale» e che il dialogo tra ministeri continui.
Il risultato? Mentre il libro dimostra che il modello di educazione teatrale esiste già, con dati alla mano, dal Ministero arriva la conferma che la legge pensata per sostenerlo vive ancora nel mondo dei condizionali.
Negli interventi di Patrizia Coletta si vede bene il doppio volto del progetto: politico e pedagogico insieme. Coletta, che nel libro firma le pagine più esplicitamente “militanti”, ricorda che da anni le reti teatrali lavorano “in attesa di una legge ancora in via di attuazione”, chiedendo che le arti performative escano dal ghetto delle “buone pratiche” per diventare materia curricolare a tutti gli effetti.
«Una pedagogia del desiderio: questo vuole essere il lavoro di ARTI con INDIRE – dice Coletta in conferenza stampa – Educare significa proporre anticorpi efficaci contro la banalizzazione e l’appiattimento oggi diffusi.»
Ettore Bassi: “I ragazzi non sono svogliati, sono arrabbiati con noi”
«Quando sento parlare di ministero illuminato – irrompe l’attore Ettore Bassi – mi chiedo: perché un ministero che pensa al teatro a scuola deve essere considerato illuminato? Perché siamo arrivati al punto che le cose normali ci sembrano straordinarie?».
«I ragazzi non hanno bisogno di sentirsi spiegare quanto il teatro è bello – continua – hanno bisogno di sentire accanto insegnanti e adulti che sappiano, loro per primi, quanto il teatro è importante».
Poi il colpo di coda: il diritto negato di andare a teatro. Bassi racconta le difficoltà concrete nel portare le scuole in sala – «facciamo una fatica enorme per consentire alle scuole di venire a teatro» – e l’episodio di un matinée in cui la direttrice del teatro sorprende un professore in platea che, durante lo spettacolo, sta facendo il fantacalcio sul telefono. «Un ragazzo ha il diritto di andare a teatro, un ragazzo deve andare a teatro», dice. Ma se gli adulti che lo accompagnano sono i primi a disertare, anche quando sono fisicamente in sala, il problema non è solo di fondi o decreti, è di responsabilità educativa.
Dopo sette anni dall’approvazione, mancano ancora i decreti attuativi
È in questo contesto che il non detto diventa la parte più politica della mattinata. Il libro di Chellini e delle reti teatrali dice esplicitamente che i decreti attuativi della 175/2017 non sono stati ancora promulgati; il Direttore generale del MiC parla di “ulteriori passaggi legislativi”; le reti ammettono che la mancata attuazione della legge le blocca operativo; un attore ricorda che i ragazzi “non sono svogliati, sono arrabbiati con noi”.
A quel punto, la domanda non è più se il teatro serva o meno a scuola – su questo, tutti sono d’accordo – ma perché lo Stato continui a tenerlo in una zona grigia: abbastanza importante per riempire convegni, non abbastanza “sicuro” per meritarne decreti e fondi vincolati.
Per questo, abbiamo posto due domande.
La legge 175/2017 prevede che il 3% del FUS venga destinato all’educazione teatrale nelle scuole. Dopo sette anni non c’è un decreto attuativo, quindi i fondi non sono stati dati. Quali azioni state promuovendo? Avete interlocutori nel Ministero della Cultura e dell’Istruzione disposti a impegnarsi con tempi certi su queste attività o siete di fronte a un muro?
«Quello che possiamo dire – risponde Gilberto Santini (presidente ARTI) – è che da parte del direttore generale ho colto un’attenzione reale, non solo formale, alle parole che sono state dette oggi. Le stesse cose le ho sentite anche in consessi molto ristretti, dove si ragiona in maniera più pragmatica. Questo mi fa pensare che ci possa essere un rilancio effettivo.
Noi ovviamente seguiremo e punteremo in quella direzione, perché è esattamente ciò che ci interessa. La mancata attuazione della legge, però, significa che noi poi non possiamo operare».
«Sono assolutamente d’accordo – continua Patrizia Coletta – Stiamo seguendo dei tavoli di confronto, c’è un ascolto. Sembra che ci siano anche dei fondi già stanziati: questo 3% risulterebbe aggiuntivo rispetto al Fondo per lo spettacolo, non sostitutivo.
Il resto dipende dall’iter legislativo che il Parlamento sta portando avanti. Da parte nostra continuiamo a lavorarci: l’attenzione c’è, l’ascolto c’è e speriamo che questo iter legislativo sia il più rapido possibile».
Quindi lei è fiduciosa, nonostante un teatro di questo tipo nelle scuole significhi, in un certo modo, provare a bypassare la forte opposizione che c’è sull’educazione sessuo–affettiva?
«Mi fa una domanda un po’ politica; qui siamo in un tavolo operativo…
Detto questo – conclude Patrizia Coletta – credo davvero che il teatro, la danza e tutte le discipline dello spettacolo dal vivo siano strumenti formidabili per educare non solo al desiderio, all’immaginazione, alla fantasia, alla consapevolezza, ma anche ai sentimenti. Le discipline artistiche dello spettacolo dal vivo poggiano su questo.
Noi nel nostro lavoro proseguiamo su questa strada, sperando che le esperienze che portiamo avanti possano diventare buone pratiche, buoni esempi, buoni modelli».
Ettore Bassi ha ragione: i ragazzi non sono svogliati, sono arrabbiati con noi. E forse dovrebbero esserlo anche con chi continua a cercare, dopo sette anni, il ‘prossimo livello legislativo’. Mentre migliaia di insegnanti continueranno a fare teatro con i loro studenti. Spontaneamente. Come sempre.
