Pompei, i segreti della dieta dei servi: frutta e fave
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Pompei, i segreti della dieta dei servi: frutta e fave

Gli scavi nella villa di Civita Giuliana rivelano che i servi romani, considerati “strumenti parlanti”, talvolta mangiavano meglio dei cittadini liberi, con cibi nutrienti come fave e frutta conservati con cura al primo piano della villa.

Pompei, i segreti della dieta dei servi: frutta e fave
Nuove scoperte nella villa degli schiavi a Pompei (Fonte: Ansa.it)
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7 Dicembre 2025 - 23.08 Culture


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Fave, mele e pere. Alimenti che oggi potremmo trovare nel cestino di chi sceglie un’alimentazione sana e naturale, e che invece, paradossalmente, erano parte importante della dieta degli schiavi della Pompei Romana. Lo confermano gli ultimi ritrovamenti nella villa di Civita Giuliana: le ceneri del Vesuvio hanno conservato uno scorcio inatteso della quotidianità della società antica, rivelando una verità inaspettata: anfore piene di legumi e un cesto di frutta preservati con cura in un ambiente riservato agli schiavi. 

Il cibo ritrovato era custodito al primo piano della villa, in un’area destinata ai servi più fidati, coloro che avevano il compito di vigilare sugli altri. Una scelta che aveva almeno due finalità: proteggere le provviste dai topi e, soprattutto, controllare con precisione quanto ciascuno potesse consumare. La dispensa diventava così luogo di nutrimento e, insieme, di potere.

Sotto lo stesso tetto, al piano inferiore, le vite degli altri schiavi scorrevano in stanze di pochi metri quadri con letti compressi in spazi angusti abitati da uomini, donne e bambini. Eppure, intorno alle ville di Pompei non era raro che queste persone, considerate delle proprietà, fossero nutriti meglio di molti cittadini liberi, costretti spesso a richiedere delle elemosine per sopravvivere. È in contraddizioni come questa che il sistema schiavistico antico mostra tutta la sua assurdità: chi era libero poteva morire di fame, chi non lo era veniva mantenuto forte per poter lavorare.

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È curioso pensare che questi alimenti ricchi, fossero destinati anche agli schiavi. Si apre una riflessione necessaria sulla logica romana, alquanto crudele, ma sorprendentemente coerente: gli schiavi erano la forza lavoro, “strumenti parlanti” e, in quanto tali, andavano mantenuti in forze e in salute per lavorare in maniera efficiente. Così, mentre famiglie considerate di rango superiore in quanto “libere”, dovevano lottare per ottenere il necessario, uomini e donne privi di diritti ricevevano un pasto sufficiente per mantenerli forti e pronti a lavorare. 

«Il confine tra schiavo e libero rischiava continuamente di svanire», osserva Gabriel Zuchtriegel, direttore del Parco archeologico di Pompei e co-autore dello studio sul quartiere servile di Civita Giuliana. «Respiriamo la stessa aria, mangiamo le stesse cose; a volte gli schiavi mangiano persino meglio dei cosiddetti liberi». Non stupisce, allora, che filosofi come Seneca o figure come San Paolo potessero immaginare una condizione umana condivisa, una forma di schiavitù universale, ma anche di libertà possibile, almeno interiore.

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Gli scavi di Civita Giuliana continueranno nei prossimi mesi, per delineare con maggiore precisione l’organizzazione dell’intera villa e del suo quartiere servile. Ogni nuova stanza riportata alla luce non è solo un pezzo di architettura recuperata, ma un tassello in più nella complessa storia di chi, pur privo di libertà, lasciò comunque tracce del proprio passaggio nelle pieghe quotidiane del vivere: nel cibo conservato, negli spazi ristretti, nei silenzi che ancora risuonano fra queste mura riemerse.

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