Balla a Parma: percezione, luce e il genio oltre il Futurismo
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Balla a Parma: percezione, luce e il genio oltre il Futurismo

La retrospettiva parmense…

Balla a Parma: percezione, luce e il genio oltre il Futurismo
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Maria Calabretta Modifica articolo

15 Dicembre 2025 - 10.13


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La retrospettiva parmense “Giacomo Balla. Un universo di luce”, promossa dal Comune di Parma in collaborazione con la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea e curata da Cesare Biasini Selvaggi e Renata Cristina Mazzantini con la collaborazione di Elena Gigli, rappresenta un’occasione unica per osservare Giacomo Balla come figura complessa, in cui la luce diventa strumento di analisi percettiva, mezzo espressivo e lente della vita stessa.
La mostra permette di leggere Balla come sperimentatore percettivo, anticipando una riflessione sulla realtà che va ben oltre la pittura futurista, rivelando come il gesto creativo sia sempre profondamente legato a uno studio scientifico della luce e del movimento.


La scelta del Palazzo del Governatore, con le sue tredici sale, permette al visitatore di seguire un percorso tematico accuratamente strutturato, in cui i momenti più noti della carriera di Balla dialogano con le opere meno conosciute, spesso inedite fuori dalla Galleria Nazionale di Roma. L’allestimento stesso diventa strumento didattico: la disposizione delle opere consente di percepire la sequenza dei processi cognitivi dell’artista, trasformando lo spazio museale in un laboratorio visivo in cui la luce guida la comprensione della sua poetica.


Il percorso espositivo si apre con i ritratti della prima fase divisionista e con opere come “Nello specchio” (1902). Qui emerge subito la tensione tra osservazione scientifica e capacità poetica: la gamma di bruni e grigi ricorda la precisione del dagherrotipo, e il taglio compositivo riflette l’influenza della fotografia studiata nello studio dei fratelli Bertieri a Torino. Si può osservare come questa attenzione fotografica anticipi la scomposizione del movimento e la costruzione di una temporalità pittorica, dove ogni sfumatura di luce agisce come micro-evento percettivo.


Il retro della tela rivela uno schizzo accennato, traccia della presenza di Erasmo il falegname, testimone della cura per il dettaglio, dei residui di colore e delle piccole macchie di pennello: segni di un processo creativo in cui la luce e il colore non sono mai accessori ma vera sostanza dell’opera. Le annotazioni sul retro diventano così un “dietro le quinte” del pensiero dell’artista, rivelando il metodo, l’eco emotiva e il ritmo intimo del suo lavoro.


Segue il ciclo delle opere di denuncia sociale, il polittico “Dei Viventi” (1902-1903): “La pazza”, “I malati”, “Il contadino” e “Il mendicante”. Nel retro di una tela troviamo un’interessante etichetta dattiloscritta con le istruzioni di Balla riguardo al corretto allestimento delle quattro opere. Queste annotazioni documentano una pratica artistica che intreccia osservazione clinica e sensibilità pittorica, nonché la vocazione dell’artista a leggere la realtà attraverso la luce, la postura e il colore. Le tele diventano “mappe emozionali”, capaci di comprendere la relazione tra realtà oggettiva e interpretazione soggettiva, anticipando approcci contemporanei di studio del corpo e della luce.

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Dalla ricerca intimista si passa alle celebri “Compenetrazioni iridescenti” (1912) in cui l’astrazione diventa uno strumento per ordinare l’universo, e poi ai bozzetti futuristi, come “I ritmi dell’archetto” (1912) e “Dinamismo di un cane al guinzaglio” (1912), fino alle opere di grande dinamismo “Velocità + luce + rumore” (1913) e “Linee di velocità + forme + rumore” (1915). Qui la luce diventa energia, vibrazione, movimento e la pittura si configura come traduzione visiva del dinamismo moderno. L’iridescenza, fenomeno fisico e percettivo, diviene metafora della complessità della vita urbana ed emotiva e le differenze cromatiche generate dagli angoli di osservazione trasformano ogni tela in un oggetto interattivo e in continuo mutamento. Non è un caso che Balla, nella sua intensa ricerca sul colore e sull’ottica, tragga ispirazione dalla fotografia: la composizione fotografica, la frammentazione del movimento e l’attenzione alla luce naturale diventano strumenti per indagare percezione e temporalità.


Un’altra tela importante è “Sorge l’idea” (1920), ispirata al nuovo spiritualismo plastico che Enrico Prampolini stava sviluppando in quegli anni, un opera che offre una testimonianza dell’interesse di Balla per l’avanguardia europea.
Si passa poi alle pitture più intime, in cui spiccano i ritratti di Luce, la sua primogenita, che Balla ritrasse in numerose occasioni.


Continuano i ritratti familiari, anche della secondogenita Elica, come “Un’onda di Luce” (1943), che si inserisce nella stagione dei cosiddetti “rossi” di Balla. Sappiamo infatti che il rosso è il colore prediletto a partire dagli anni Trenta, dopo una grave malattia che aveva messo in pericolo la sua vita. In questo periodo, il recupero delle forze coincide con un rinnovamento e con il ritorno al ritratto, in particolare della figura femminile: queste opere testimoniano la ricerca verso una pittura di luce e di energia, lontana dall’avanguardia futurista.

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Tra le tele più belle esposte, troviamo “La fila per l’agnello (1945), una delle tante scene divenute quotidiane durante la Seconda guerra mondiale, un vero e proprio documento storico sulla difficoltà di reperire il cibo durante il conflitto bellico. Il dipinto è una veduta dall’alto, osservata dalla finestra dell’abitazione-studio dell’artista, in via Oslavia a Roma.


“Noi allo specchio” (1945) ritrae la famiglia Balla in un momento intimo e quotidiano. Elica fa notare come la cara mamma alzi gli occhi dal giornale e, da sopra gli occhiali, guardi con grande affetto la propria famiglia. I ritratti della moglie Elisa e dei figli, realizzati durante gli anni di malattia della consorte, sono particolarmente intensi. La luce, modulata con delicatezza, diventa strumento di consolazione e memoria: illumina volti segnati dal dolore e crea spazi di raccoglimento. “Autodolore” (1947) colpisce per la forza dell’immediatezza. Il volto dell’artista emerge dallo sfondo scuro, come in un chiaroscuro di grande forza drammatica. I lineamenti del volto parlano di un dolore privato mostrando un lutto silenzioso e profondo. Fu proprio la figlia Elica a convincere il padre a riprendere in mano i pennelli per trasformare in pittura il dolore inconsolabile. Nei lavori successivi alla morte della moglie, la luce assume una funzione simbolica, testimoniando il senso della perdita e l’elaborazione del lutto. In questi lavori la luce non è mai neutra: diventa memoria liquida, vibrazione emotiva e registro storico del tempo, conferendo alle opere un potere narrativo che va oltre la semplice rappresentazione.


In opere come “La famiglia del pittore” (1945) e “Non lasciarmi” (1947) la luce è modulazione formale, ma soprattutto strumento narrativo, introspezione e mediazione tra soggetto e realtà. Anche nelle scene domestiche o nei ritratti delle figlie, il colore e la sua percezione giocano un ruolo centrale, confermando l’interesse costante dell’artista per gli accostamenti cromatici, le compenetrazioni e le vibrazioni luminose.


La lettura dei dettagli urbani e domestici offre un ponte tra la dimensione intima e la percezione collettiva della città, utilizzando la pittura come strumento di antropologia visiva.


La mostra è arricchita anche da dispositivi multimediali e video immersivi – come l’installazione ispirata a “Villa Borghese. Parco dei Daini” (1910) – che trasformano la visita in esperienza sensoriale, dove la luce diventa fenomeno dinamico e partecipativo.

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L’allestimento, attentamente curato, rende il visitatore un osservatore attivo, capace di cogliere non solo la forma e il colore, ma anche il senso profondo del gesto creativo, visibile anche nel retro delle tele, che conservano residui di colore, timbri e annotazioni autografe. In questo contesto, il visitatore diventa parte del dispositivo ottico dell’artista: ogni sguardo genera variazioni percettive, rendendo la fruizione un atto di ricerca e scoperta continua.


E’ quanto mai opportuno segnalare la generosità delle figlie, Elica e Luce Balla, le cui donazioni hanno reso possibile la costruzione della collezione della Galleria Nazionale. Attraverso la loro decisione, molte opere del padre sono tornate a “abitare” Villa Borghese, luogo in cui sono nate, creando un dialogo tra memoria, collezione e spazio originario. Questa restituzione rappresenta una straordinaria operazione di memoria e rigenerazione culturale: le opere non solo ritornano alla luce, ma generano una nuova genealogia di sguardi e interpretazioni, connettendo il passato con la contemporaneità della città di Parma. La retrospettiva è quindi anche un omaggio a questa attenzione filiale e al lavoro dei curatori e dei musei nel custodire, valorizzare e rendere accessibile al pubblico il patrimonio artistico.


La retrospettiva si configura inoltre come un invito rivolto a Parma a entrare in dialogo con il patrimonio della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, offrendo al pubblico un primo, prezioso tassello di una collezione di straordinaria ricchezza. L’esperienza parmense diventa in questo modo stimolo e preludio alla scoperta del nuovo allestimento romano, dove il visitatore è chiamato a proseguire il percorso tra oltre mille capolavori che attraversano il Novecento e la contemporaneità, da Giorgio de Chirico a Pino Pascali, da Alberto Burri a Lucio Fontana, fino a Emilio Isgrò.


“Giacomo Balla. Un universo di luce” restituisce un Balla come pensatore visivo e sperimentatore ontologico, per molti aspetti inedito.


L’esperienza del visitatore diventa un laboratorio: ogni variazione luminosa e cromatica è uno stimolo a ripensare la realtà e il tempo, e la mostra si configura come spazio pedagogico di una nuova cultura della percezione, rivelando la complessità di un artista che rimane imprescindibile per comprendere il Novecento e la contemporaneità.

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