di Alessia de Antoniis
Dieci anni dopo la scomparsa di Luca De Filippo, Non ti pago torna in scena all’Ambra Jovinelli – fino al 21 dicembre 2025 – con la forza di un classico che non invecchia. Carolina Rosi, che ha curato questa ripresa conservando scenografie, costumi e l’impianto registico originale del 2015 – l’ultima regia di Luca – non compie un’operazione nostalgica ma un atto di necessaria restituzione: restituire al pubblico una visione scenica che aveva accentuato, con lucidità quasi profetica, l’avidità morale dei personaggi eduardiani, leggendoli in chiave grottesca ma mai macchiettistica.
Il risultato è uno spettacolo che incanta, diverte e inquieta. Perché Non ti pago, commedia del 1940 sulla follia del gioco del lotto e sulla disgregazione familiare come metafora del disfacimento sociale, è scritta come se fosse di oggi. Il biglietto è un MacGuffin (per dirla con Hitchcock), non vale per ciò che è, ma per ciò che scatena: una spirale di risentimento dove persino i morti diventano prova a carico. Eduardo resta vivo non per devozione filologica, ma perché la sua drammaturgia coglie meccanismi antropologici che la contemporaneità non ha superato: l’ossessione per la fortuna facile, l’invidia feroce, la disintegrazione dei legami sotto il peso dell’avidità.
Ficarra, un Eduardo moderno
Il punto di svolta è Salvo Ficarra nel ruolo di Ferdinando Quagliuolo, gestore del botteghino del lotto accecato dall’invidia quando il suo impiegato Mario Bertolini vince una quaterna grazie a numeri ricevuti in sogno: ad apparirgli sono due defunti, il padre di Ferdinando (che indica i numeri) e il tabaccaio (testimone della visione). La trovata è micidiale: persino l’aldilà, per essere credibile, pretende un garante—come se il miracolo dovesse presentarsi con ricevuta.
Ficarra entra dentro il personaggio di Eduardo e ne esce con in mano il senso e la comicità, dando nuova vita al testo senza tradirlo. La sua interpretazione è caratterizzata da quella “leggerezza e spessore” che Carolina Rosi aveva auspicato: incontra lo spirito comico ma ne accentua le ombre interiori, trasformando Ferdinando da macchietta avara a figura tragicamente contemporanea. Non porta “la tv” in teatro: porta il teatro dentro la sua misura comica, lavorando di sottrazione e di timing più che di gigioneria.
I tempi comici di Ficarra sono millimetrici. Non imita Eduardo, lo comprende: restituisce il delirio di onnipotenza di un uomo che proclama “Io faccio la legge di Ferdinando Quagliuolo” con una verità scenica che oscilla tra il grottesco e il patetico. Quando Ferdinando rifiuta di pagare la vincita sostenendo che lo spirito del padre avrebbe sbagliato destinatario (“si è recato per errore nella vecchia abitazione”), la risata si incrina: dietro l’assurdo c’è la disperazione di chi non accetta di perdere, mai.
Un trio comico di altissimo livello
Attorno a Ficarra si muove un cast che funziona come il meccanismo di un orologio. Marcello Romolo nel ruolo di Don Raffaele, il prete che tenta invano di mediare tra le parti, e Mario Porfito nei panni dell’avvocato, formano con il protagonista un trio comico di altissimo livello. Il secondo atto è una valanga di ilarità costruita su un incastro perfetto di entrate, uscite, escalation verbali e situazioni paradossali.
Ma l’intera compagnia merita attenzione. Carolina Rosi, Nicola Di Pinto, Viola Forestiero, Federica Altamura, Vincenzo Castellone, Andrea Cioffi, Carmen Annibale, Paola Fulciniti: ognuno contribuisce a quella coralità che è la vera forza dello spettacolo. Non ci sono protagonisti e comparse, ma un organismo scenico dove ogni battuta, ogni reazione, ogni movimento è calibrato per sostenere la partitura eduardiana.
C’è qualcosa della comicità di Scarpetta nel modo in cui i personaggi reagiscono agli eventi, in quella anarchia comunicativa dove nessuno ascolta l’altro e tutti urlano la propria ragione.
La lingua è frammentata, nervosa, fortemente dialettale: un napoletano che riflette l’isteria collettiva, dove le battute si interrompono, deviano, esplodono. Le scene di Gianmaurizio Fercioni e i costumi di Silvia Polidori, recuperati dall’allestimento originale, funzionano perfettamente nel restituire un mondo popolare sospeso tra realismo e astrazione. Le musiche di Nicola Piovani sottolineano senza invadere.
Il grottesco che non diventa macchietta
La vera scommessa di questo allestimento, e il suo maggiore merito, è nell’aver mantenuto l’equilibrio precario tra comicità e critica sociale. Ferdinando non è solo un avaro comico: è un tiranno domestico che arriva a cacciare moglie e figlia, a insultare chi lo contraddice, a lanciare maledizioni feroci su chi osa rivendicare ciò che è suo (“Un guaio per ogni milione, dalle malattie insignificanti a quelle gravi”). L’avidità morale, quella che Luca De Filippo aveva scelto di accentuare, viene portata fino al limite senza scivolare nella caricatura.
Il rischio c’è: un Ferdinando troppo repellente potrebbe allontanare l’identificazione dello spettatore. Ma Ficarra, con la sua sensibilità interpretativa, riesce a mantenere il personaggio dentro la dimensione del grottesco eduardiano, quella in cui il riso nasce dalla pietà per l’umanità dolente che si illude di poter cambiare il proprio destino attraverso un numero fortunato.
Questa ripresa di Non ti pago dimostra che il teatro di Eduardo non ha bisogno di attualizzazioni forzate o stravolgimenti interpretativi per parlare al presente. Ha bisogno di attori che ne comprendano la partitura, di regie che ne rispettino l’architettura, di compagnie che ne tramandino la memoria viva. Carolina Rosi e la Compagnia di Teatro di Luca De Filippo lo hanno fatto con rigore e passione, restituendo al pubblico uno spettacolo che fa ridere, commuove e inquieta.
Eduardo è vivo. Ficarra e la Compagnia di Luca De Filippo gli hanno dato una voce nuova senza tradirne lo spirito.
