Così il tecnofascismo trasforma la democrazia in etnocrazia: paura, violenza e controllo sociale
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Così il tecnofascismo trasforma la democrazia in etnocrazia: paura, violenza e controllo sociale

Nel libro Tecnofascismo, Donatella Di Cesare spiega come la nuova destra limiti la democrazia, imponendo esclusione, paura, controllo sociale e una visione monoetnica dei popoli.

Così il tecnofascismo trasforma la democrazia in etnocrazia: paura, violenza e controllo sociale
Donatella Di Cesare
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21 Dicembre 2025 - 22.27


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di Antonio Salvati

In questo nostro tempo complesso, ci vuole la ripresa di un grande movimento di lotta per la pace e d’impegno contro la guerra e la violenza diffusa, che sappia incrociare grande passione civile e realismo politico, nell’intelligenza delle situazioni. La pace deve – per dirla con Andrea Riccardi – tornare a essere un sogno condiviso, il cuore dell’educazione delle giovani generazioni, il fondamento della società, uno dei maggiori temi del dibattito politico. Per realizzare una pace più larga, c’è un problema di opinione pubblica: che tanti condividano ed esprimano l’orrore per la guerra. Dobbiamo tornare a parlare delle guerre anche lontane: manifestare, intervenire, non dimenticare. È un lavoro di vigilanza.

Affiorano da più parti la domanda e il desiderio di come agire di fronte a conflitti complessi, di fronte a ragioni e torti tanto interconnessi, a intrichi d’interessi, a storie contorte. Sono domande concrete, cui bisogna rispondere. Come è possibile che società così avanzate – dotate di conoscenze scientifiche straordinarie, di capacità tecnologiche mai viste prima, di risorse economiche enormi, di un patrimonio culturale immenso – manifestino propensioni al bellicismo, rivelando tratti tanto arcaici?Come superare lo spaesamento del cittadino del mondo globale, che porta a un disinteresse dalle problematiche della pace? Per vivere responsabilmente nel nostro mondo, dobbiamo innanzitutto saperne di più. Le semplificazioni ideologiche sono tramontate. La cultura, l’informazione e la politica a livello internazionale sono una necessità per abitare la globalizzazione. Non significa divenire accademici o esperti, ma seguire con costanza e attenzione il mondo nei suoi percorsi attuali, anche se un po’ complicati, non impossibili da comprendere, però, per la gente comune. La politica internazionale e la geopolitica devono rientrare nella cultura e nell’informazione quotidiana. Oggi, diciamocelo chiaramente, una cultura geopolitica è necessaria. Come l’inglese quando si viaggia. In altri termini, potremmo dire che pensare diventa sempre più un atto di resistenza: non solo un esercizio di analisi, ma un gesto critico capace di meglio comprendere le nuove forme del potere.

Ci viene in soccorso – verrebbe da dire come sempre – Donatella Di Cesare con il suo ultimo volume Tecnofascismo (Einaudi, Torino 2025, pp. 160). Nei suoi precedenti lavori, l’autrice ci aveva aiutato a capire come la politica contemporanea si inscriva nello spazio dell’immunizzazione e della paura.

Donatella Di Cesare parla di democrazia immunitaria, intendendo con questo la deriva di una comunità democratica sempre più basata sulla barriera tra protetti ed esposti, tra chi è dentro e chi è fuori. In un recente convegno sul carcere e la clemenza tenutosi al Senato ha affermato che «il cittadino all’interno non chiede partecipazione, bensì solo protezione, difesa della propria sfera. La barriera è profonda, il divario si amplia: da un canto i protetti, i preservati, gli immuni, dall’altro gli esposti, i reietti, gli abbandonati. Non è più solo l’apertheid dei poveri. Il discrimine è proprio l’immunità che scava un solco. Immune, da munus, tributo, onere, dono, vuol dire essere esente dall’obbligazione mutua, essere dispensati dal vincolo reciproco». Cioè, la fine della comunità, dell’impegno reciproco verso la propria reciproca vulnerabilità. Quel che accade è un divario che aumenta.

Maggiore è l’esigenza di immunizzazione per chi è dentro la città, più implacabile e spietato l’abbandono dei superflui lì fuori. «Chi aspira all’immunità si ritrae – si allontana dalla polis e da tutto ciò che è comune – è disaffezionato, anestetizzato, svincolato, spettatore imperturbabile dei disastri altrui, del dolore che colpisce l’altro.  Perché l’altro sarebbe pericolo, minaccia, alterazione». Questo avviene attraverso una politica fobocratica, che cioè governa esercitando la paura, incutendo timore. È un potere che minaccia per rassicurare, che sottolinea il pericolo per promettere tutele – una promessa che non mantiene. È un circolo perverso che segna il successo della nuova destra e delle forze populiste. Si accendono e si spengono focolai di apprensione collettiva – spiega la Di Cesare – senza alcuna strategia e senza chiari scopi se non la chiusura immunitaria di una comunità passiva e disgregata. La vita appare stretta in una morsa tra minaccia di subire un’aggressione ed esigenza di difendersi, anzi di prevenire l’attacco. «In tale contesto il carcere, lungi dall’essere luogo di riscatto (ma quando lo è mai stato?), macchina di produzione di crimini e criminali, sembra rivelarsi addirittura efficace strumento di governo. Il crimine è l’occasione, il pretesto per esercitare la politica fobocratica. Di qui il tentativo diffuso di criminalizzazione. Perciò si moltiplicano i reati – proprio con il pretesto di criminalizzare. (Adesso siamo arrivati a considerare reato la resistenza passiva)». Infliggere dolore nel presente«non aggiusta il passato e molto spesso vieta il futuro. Le riforme del buon punire non hanno fatto che consolidare l’economia del castigo che oggi viene inserita nel nuovo dispositivo di governo e proficuamente utilizzata. Il castigo ormai non solo reitera l’infrazione, ma consente la separazione tra la città e il suo fuori». Occorre perciò operare perché il legame non si spezzi del tutto, perché la separazione già in atto non si compia, perché quel microcosmo non vada definitivamente alla deriva. Riparare vuol dire ricomporre l’infranto.«Vuol dire tornare, far ritorno. Riparare vuol dire far sì che i frammenti possano essere ricomposti – non più come prima, ma in un altro modo – che possano far ritorno e ritrovare posto nello spazio comune. Riparare non è restituire, ma aprire un nuovo varco, che è varco di futuro e di speranza. La ricomposizione dell’infranto appare oggi il compito più urgente ovunque. Ma questo vale soprattutto dal carcere. E da lì occorre ripartire. Solo così è possibile anche una comunità che non sia quella della paura e della punizione».

Il lettore perdonerà questa lunga digressione, degna di nota e necessaria. Torniamo al tecnofascismo. La Di Cesare precisa che non intende parlare del passato, «bensí del futuro o, meglio, di ciò che già si fa presente». Tuttavia, i fantasmi del fascismo offrono un modello «tutt’altro che fittizio e il procedere comparativo fa sì che la conoscenza di ciò che è accaduto ieri getti luce sugli eventi di oggi». L’erosione del processo democratico si coniuga con una gestione dei popoli in chiave etnica: questa è la tesi centrale del libro. I due cardini, apparentemente distanti, intorno ai quali si organizza il mondo neototalitario, sono la tecnica e il sangue. Il volume, in maniera decisamente accessibile, intende dischiudere una prospettiva e chiarire il processo neo-totalitario in cui la nuova destra riduce la democrazia a etnocrazia e persegue una composizione monoetnica dei popoli. Tutto attraverso il perseguimento di comunità chiuse, animate da suprematismo, dove «non c’è posto per i migranti, quegli indesiderati che si possono deportare, quei superflui di cui è lecito sbarazzarsi». Tutto condito «dall’ossessione della decadenza all’incubo della “fine del mondo”, dalla minaccia dell’insicurezza all’autodistruttività, dalla depressione al mito di una libertà senza vincoli, dal risentimento all’odio sovrano». Dall’angoscia di essere distrutti alla distruzione dell’altro il passo è breve, spiega la Di Cesare. La scelta di «una necropolitica di guerra diventa allora l’unica strada percorribile».

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Da tempo i politologi, gli storici richiamano l’attenzione sul pericolo dell’ultradestra, oggi sempre più ammessa e normalizzata nello spazio pubblico, come conferma la seconda ascesa di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Una destra antica – che si spaccia per nuova – capace di sostituirsi ai partiti conservatori, finendo per occupare persino il centro. Qualcuno continua a rassicurarci considerando il fenomeno un folcloristico e transitorio «rigurgito», destinato a scomparire rapidamente. L’onda nera, però, è sempre – avverte giustamente la Di Cesare – più alta e minacciosa. Il fenomeno merita una doverosa attenzione perché mancano ancora le parole per designare questo nuovo totalitarismo. I termini di cui disponiamo – come sovranismo, populismo, neonazionalismo, autocrazia, dittatura – sembrano «rivelarsi tanto inadeguati quanto fuorvianti. Provengono dal secolo scorso, sono stati coniati per indicare i fenomeni di quell’epoca, mentre oggi rischiano di costituire una nebbia interpretativa. Se da un canto inducono a credere che si tratti solo di temporanee spinte regressive, dall’altro impediscono di guardare al vero pericolo».

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Ecco perché occorre leggere il volume denso della Di Cesare, di cui è francamente difficile darne adeguatamente conto. Darò conto di alcune considerazioni contenute nel volume, invitando alla sua lettura perché come scriveva Hannah Arendt la politica nasce quando gli esseri umani si mettono in mezzo al mondo per discuterlo, plasmarlo, reinterpretarlo. Immaginare il futuro è – ha detto recentemente Antonio Spadaro – dunque un atto politico, non perché governi, ma perché apre. Non perché risolve, ma perché dischiude possibilità.

Non siamo di fronte ad esiti di uno scontro di civiltà (il tanto paventato scontro Islam contro Occidente), bensì – spiega Di Cesare – «di un incontro di utilità e i conflitti attuali sono quel detonatore in grado di far luce su nessi esplosivi. L’alleanza tra manager delle grandi aziende belliche, rappresentanti delle gerarchie militari e ceto politico non è che l’aspetto più subdolo di un capitalismo che coinvolge, consuma e devasta le democrazie spinte, per garantirsi benessere ed extraprofitto, a diventare principali azioniste del mercato di guerra. A mo’ di sovrani assoluti del passato, ma disponendo di una concentrazione di mezzi tecnici e finanziari, nonché di armi nucleari devastanti, le élite occidentali decidono le guerre senza chiedere in alcun modo il consenso dei propri cittadini e calpestando, anzi, la loro aspirazione alla pace».

In più parti del volume, l’autrice si sofferma sull’etnocrazia per indicare la gestione neototalitaria dei popoli. Con questo neologismo intende la riduzione sistematica del demos, cioè del popolo come comunità non definita, all’ethnos, alla comunità definita in base alla medesima discendenza. Si stabilisce così il predominio di un presunto nucleo etnico sul resto del popolo. A seconda dei casi, tale resto può subire trattamenti diversi, più o meno tolleranti, più o meno violenti.

La costante e duratura deriva etnica deve essere considerata «un’interna patologia totalitaria della democrazia, che viene per questa via al contempo svuotata e chiusa. Perciò l’etnocrazia, pur mantenendo una facciata democratica, è a tutti gli effetti un regime non-democratico». Su questo occorre chiarezza e non possono essere ammesse ambiguità, sia considerando le confusioni e i malintesi nel dibattito pubblico, sia guardando agli usi, o abusi, che ne fa la nuova destra. «L’etnocrazia mira a chiudere la democrazia irreggimentandola intorno a un fondamento e delimitandola attraverso confini in modo da controllare il territorio e governare il popolo che può essere plasmato con un criterio usato come mezzo di comando e spesso istituzionalizzato. Una trasformazione cosí profonda, quale quella che si sta verificando sotto i nostri occhi, è possibile grazie alle ambiguità insite nel concetto di popolo e alle conseguenti ricadute sul modo di intendere o, meglio, di fraintendere e travisare la democrazia. È indubbio che, se si ripercorre a ritroso la storia semantica, per giungere, com’è necessario, al lessico greco, il demos appare già sempre minacciato dall’ethnos. Destinata a restare costante, acuendosi, anzi, in alcune epoche, la tensione fra i due termini può essere vista come un conflitto latente fra due opposte concezioni del popolo che oggi piú che mai si fronteggiano».

Ho fornito una lunga citazione del libro perché l’antitesi demos – ethnos è per la Di Cesare un’indispensabile chiave interpretativa nel fosco e confuso orizzonte contemporaneo. Bisogna ben precisare«che il demos non è un ethnos e la democrazia non è una etnocrazia».

La forza della «vera» democrazia starebbe nella sua capacità di «mantenersi identica allontanando o addirittura eliminando l’estraneo e il diseguale che la porterebbero alla rovina alterandola». L’etnocrazia è, dunque, «l’assunzione del modello famigliare nel modo di vedere la comunità politica. Poiché questa è oggi per lo piú la nazione, l’etnocrazia è il principio dell’ethnos esplicitato, statuito e istituito, al punto da divenire il criterio con cui modellare, o rimodellare, il corpo della nazione. Ciò permette di escludere i non-appartenenti, di cancellare ogni differenza, nella ricerca ossessiva di pervenire all’omogeneità e di preservare le frontiere. Si configura cosí quell’ideale della nazione-famiglia, tanto ostile all’interno verso quelli che sono reputati estranei, quanto animata all’esterno da una generalizzata ostilità». Se il nazionalismo è l’ideologia che asseconda la nazione, che l’aiuta a formarsi e a mantenersi salda, «l’etnocrazia è invece la risposta al dissolversi di quella finzione, quando i vincoli della presunta parentela sono andati sciogliendosi e le frontiere sono state aperte. Allora l’etnocrazia è la reazione che tenta di ricondurre la comunità a quello schema famigliare che sembra andare perduto».

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Dicevo che è difficile dar conto, in poche battute, sullo spessore delle considerazioni sviluppate nel volume, un vero e proprio distillato di sapienza e di conoscenza. Si parla di sicurezza, presentata come bene supremo, che legittima un crescendo di controllo, sorveglianza e segregazione, trasformando l’altro, soprattutto il migrante, in potenziale minaccia da espellere o neutralizzare. Si ragiona sul razzismo nel XXI secolo che non si presenta più nei termini biologici novecenteschi ma assume forme culturali e identitarie. Si parla dell’islamofobia come uno dei motori centrali del tecnofascismo contemporaneo. E di altro ancora.

Desidero terminare sul senso di assunzione di responsabilità. Mi ha sempre colpito un’affermazione

di Hannah Arendt contenuta ne Le origini del totalitarismo: «Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più».

Per questo – tornando a quanto detto all’inizio – pensare e conoscere diventa sempre più un atto di resistenza e la responsabilità è il nodo costitutivo di ogni esistenza. E – come afferma Di Cesare – precede la sua possibilità di esserci. «Senza l’altro l’io non esisterebbe neppure. La responsabilità precede la libertà. E se l’io è sempre in questione, lo è tanto più nel mondo globalizzato dove, come non è possibile aggirare il tema della responsabilità illimitata, così non è lecito abdicare agli ideali di una giustizia mondiale. Se l’etica è un’ottica, appare allora indispensabile una nuova vigilanza, condizione dell’esistenza politica. Solo una veglia piena di attenzione, colma di responsabilità, che nasce dall’assillo per il dolore altrui, dall’incubo della violenza, dal tormento per le vite perdute, interrompe l’insonnia poliziesca, il catastrofico sonnambulismo». Indicazioni preziose. Direbbe Andrea Riccardi che «non siamo consegnati a un destino ignoto, su cui non si può esercitare nessuna influenza. Si può ascoltare, comprendere, discutere: i processi messi in moto, talvolta, travolgono le resistenze e mettono in atto movimenti che vanno ben aldilà dei singoli».

La storia non è uno spartito già scritto. La storia è piena di sorprese. Il XXI secolo non può e non deve essere destinato alla guerra. In questo senso, accettare passivamente la violenza, l’ingiustizia e la distruzione significa rinunciare a ciò che ci rende umani, ossia la capacità di reagire, di immaginare alternative, di costruire un mondo diverso. Proprio questo tempo, segnato da ferite profonde, ci sollecita a un cambiamento più radicale. In questo senso immaginare il futuro è già un atto politico. Di resistenza. Walter Benjamin ricordava che ogni epoca sogna la successiva, ma quel sogno è spesso interrotto da catastrofi che ne deviano il corso. L’arte di immaginare consiste nel coltivare sogni abbastanza robusti da sopravvivere al trauma del reale. Il futuro, allora, non è un calendario da riempire, ma un enigma che chiede linguaggi nuovi, allenamento dell’immaginazione, coraggio di rischiare visioni. C’è una generazione che non vuole più scegliere tra cinismo e utopia. E, in fondo, la domanda – direbbe Spadaro – resta sempre la stessa, la più antica e la più necessaria: e se fosse diverso?

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