di Antonio Salvati
Appartengo alla generazione che apprezzò Portobello,uno dei programmi televisivi più popolari trasmessi dalla televisione italiana che nella seconda metà degli anni Settanta – come molti ricorderanno – andava in onda nella prima serata del venerdì sul secondo canale della Rai. Qualcuno, con qualche anno più di me, ricorda anche la conduzione de La Domenica Sportiva, pacata e lontana dai canoni odierni.
Nello stesso tempo, in tanti ricordiamo l’immenso stupore provato dopo la notizia del suo arresto avvenuto il 17 giugno 1983 con l’accusa di associazione camorristica e traffico di droga. Il suo nome è ancora oggi ricordato per un clamoroso caso di malagiustizia di cui fu vittima e che fu poi denominato “caso Tortora“. Nel 1985 fu condannato a dieci anni di carcere. Successivamente sarà dimostrata e riconosciuta la sua innocenza il 15 settembre 1986, quando venne infine assolto dalla Corte d’appello di Napoli, con sentenza confermata dalla Corte di cassazione nel 1987.
Il suo caso giudiziario divenne simbolo di tutti gli errori giudiziari in Italia, soprattutto per la mediaticità della sua vittima. A distanza di decenni, la sua vicenda è tuttora un argomento che divide e di fronte alla quale non tutti i magistrati – ma anche operatori dell’informazione (nessun organo di rappresentanza dei giornalisti ha mai chiesto il conto a quei loro iscritti che lo hanno accusato con tanta veemenza sulle pagine dei quotidiani) – si pongono con animo sereno. La vicenda merita di essere ricordata perché aiuta a tenere i riflettori accesi su questioni come gli errori giudiziari, l’ingiusta detenzione, l’uso della custodia cautelare, il grande problema degli innocenti in carcere. Per la prima volta un errore giudiziario assunse una dimensione civile e politica.
In questi giorni è uscita una nuova edizione aggiornata del volume di Daniele Biacchessi, Enzo Tortora. Dalla luce del successo al buio del labirinto (Compagnia editoriale Aliberti 2025 160 pp. € 16,90) con una postfazione di Silvia Tortora e un contributo di Roberto Spagnoli. Un volume utile ed ancora attuale non solo per via del difficile rapporto tra giustizia e cittadino, ma anche per far memoria dell’Italia degli anni Ottanta. Un paese che – come spesso accade oggi – agisce con irriflessività e precipitazione (per non dire di pancia), che esalta e distrugge i propri miti. L’uomo di successo, il conduttore elegante, l’intellettuale cortese improvvisamente degradato a colpevole da spettacolo. Solo in seguito, a distanza di tempo, alcuni giornalisti hanno chiesto scusa, altri non lo hanno mai fatto. Un libro, quindi, per smuovere le coscienze e sottrarle dal sonnambulismo. E per ricordare quanto scrisse Silvia, una delle figlie, cui Enzo Tortora: «Quello che non si sa è che una volta gettati in galera non si è più cittadini ma pietre, pietre senza suono, senza voce, che a poco a poco si ricoprono di muschio. Una coltre che ti copre con atroce indifferenza. E il mondo gira, indifferente a questa infamia». Grazie alla mobilitazione dei radicali e al lavoro di Radio Radicale (in tanti seguirono il processo attraverso la radio), la vicenda uscì dall’ambito processuale per diventare tema di riforma democratica per la «giustizia giusta». Per questo non fu solo uno dei tanti errori giudiziari o un esempio di “malagiustizia” ma un caso politico. Una vicenda utile per tenere a mente la fragilità dei diritti individuali faticosamente conquistati. In questo senso, è un lavoro di vigilanza. Ne abbiamo parlato con l’autore.
Perché pubblicare un libro sul caso Tortora uscito nel 2013?
“Enzo Tortora. Dalla luce del successo al buio del labirinto” uscì nel 2013, e a distanza di molti anni il libro resta ancora un saggio assolutamente attuale, perché non si è ancora risolto il difficile rapporto tra giustizia e cittadino, le riforme promesse dalla politica non si sono mai realizzate, la giustizia rimane il terreno privilegiato per animare scontri tra schieramenti, guerre tra bande, rivalse professionali e personali. Perché ristampare un libro come questo? Per fare memoria, per smuovere le coscienze, per impedire che possa ancora avvenire nel nostro Paese un caso giudiziario come quello di Enzo Tortora.
Da dove parte il suo racconto?
Da una domanda. Cosa accade oggi se un normale cittadino viene arrestato, sbattuto in carcere, rinviato a giudizio, processato anche per reati gravi, condannato, e poi ritenuto innocente, estraneo ai fatti contestati dalla pubblica accusa? Nulla di diverso dagli anni Ottanta quando Enzo Tortora veniva arrestato. Le riforme annunciate dai vari governi, compresa l’ultima del ministro Guardasigilli Carlo Nordio non hanno evitato che si possano ancora ripetere casi di malagiustizia come questo.
Ma Enzo Tortora non era un normale cittadino?
Infatti, Enzo Tortora era un personaggio pubblico, uno dei presentatori radiotelevisivi più popolari in Italia, un giornalista, un inviato, uno scrittore di successo, un inventore di format televisivi innovativi, e molto altro ancora. Quando la mannaia della giustizia ingiusta calò su Enzo Tortora era la notte del 17 giugno 1983. Venne accusato di associazione per delinquere e traffico di stupefacenti, sulla base di testimonianze ritenute poi infondate dai tribunali, e che portarono a una delle più grandi ingiustizie nella storia giudiziaria italiana. Venne perfino mostrato con gli schiavettoni davanti alle telecamere dei telegiornali. Tortora non era innocente: affermava invece di essere estraneo da tutte le accuse, che è cosa ben diversa. Il suo è stato un calvario che ha distrutto un uomo.
Nel suo libro c’è la testimonianza di Silvia Tortora, la figlia di Enzo.
Si, è una testimonianza importante, frutto di una lunga conversazione avvenuta nella sua abitazione romana. Riporto le sue testuali parole che ancora oggi pesano come macigni. «Quel giorno l’hanno svegliato all’alba e arrestato, trasportato velocemente dall’Hotel Plaza al Comando operativo dei carabinieri di via in Selci, a Roma, lasciato macerare in una guardiola nonostante avesse avuto un collasso cardiocircolatorio. Soltanto dopo molte ore, e comunque dopo l’arrivo delle telecamere della Rai, l’hanno fatto uscire dal Comando con le manette ai polsi, ha dovuto percorrere venticinque metri fino a raggiungere la macchina dei carabinieri posteggiata dall’altra parte della strada, ha camminato in mezzo a gente che gli sputava, che lo insultava a gran voce. Alla fine, lo hanno trasferito in carcere a Regina Coeli. Poi sono arrivati gli interrogatori, i confronti con gli pseudo pentiti, le accuse dei magistrati, i processi, le condanne, fino all’assoluzione in Corte d’appello e in Corte di cassazione».
Nel suo racconto c’è la dura critica sull’operato della magistratura, ma anche dei giornalisti.
Il giornalismo italiano raggiunse uno dei livelli più bassi della sua storia. Nel libro pubblico uno dopo l’altro alcuni frammenti di incipit di chi lo aveva condannato senza appello. Due soli, Paolo Gambescia e Giuseppe Marrazzo, fecero scuse formali alla famiglia all’inizio dell’iter giudiziario. Altri, come Giorgia Bocca e Enzo Biagi, scrissero nei loro articoli la parola “innocente”, mentre da tanti altri arrivò quasi un linciaggio. Silvia Tortora scriveva: «Quello che non si sa è che una volta gettati in galera non si è più cittadini ma pietre, pietre senza suono, senza voce, che a poco a poco si ricoprono di muschio. Una coltre che ti copre con atroce indifferenza. E il mondo gira, indifferente a questa infamia». Oggi, a distanza di tutti questi anni si può solo darle ragione.
