Col Teatro in carcere la recidiva crolla al 6%, ma servono fondi
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Col Teatro in carcere la recidiva crolla al 6%, ma servono fondi

Antonella Iallorenzi della Compagnia Petra: "Urge vedere la cultura come parte del trattamento, non come intrattenimento"

Col Teatro in carcere la recidiva crolla al 6% - di Alessia de Antoniis
IN_OUT. Libertà Aumentata
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Alessia de Antoniis Modifica articolo

28 Dicembre 2025 - 16.45


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di Alessia de Antoniis

Secondo il rapporto di luglio 2025 di Antigone, a fine giugno le persone detenute erano 62.728 a fronte di 51.276 posti regolamentari; sottratti i 4.559 posti indisponibili, il tasso di affollamento reale sale al 134,3% e in otto istituti supera il 190%. La recidiva complessiva in Italia è spesso stimata intorno al 70%.

In questo contesto, progetti come quello della Compagnia Petra provano a fare del carcere non solo un luogo di contenimento, ma uno spazio di trasformazione. E, secondo quanto richiamato dagli Stati Generali dell’Esecuzione Penale (dato ripreso anche in un dossier della Camera), tra chi in carcere svolge attività artistiche e culturali, in particolare teatrali, la recidiva scenderebbe fino al 6%

Antonella Iallorenzi dirige la Compagnia Teatrale Petra e da dodici anni porta teatro, danza e realtà virtuale negli istituti penitenziari di Potenza e Matera. Il progetto si chiama IN_OUT. Libertà Aumentata e dal 2025 ha il sostegno del Ministero della Cultura per il triennio 2025-2027.

Cosa significa portare “libertà aumentata” dentro un carcere?

Significa creare le condizioni affinché, anche in un luogo che per definizione è di costrizione, possa nascere uno spazio di possibilità. Dentro le mura di un penitenziario la libertà non coincide con l’uscita fisica, ma con la capacità di vivere la propria giornata profondamente. È un’idea di libertà che non cancella la responsabilità individuale, però restituisce dignità, complessità, presenza.

La chiamiamo aumentata perché è relazione, ascolto, creazione, parola condivisa. Ma anche in senso concreto: con i visori VR allarghiamo la fruizione del mondo esterno. Poter assistere virtualmente a uno spettacolo, visitare un museo significa riattivare immaginazione e memoria. Significa familiarizzare con tecnologie che altrimenti rischiano di diventare un ulteriore elemento di esclusione al reinserimento. La tecnologia non è evasione: è un ponte tra dentro e fuori, tra presente e futuro.

Lavorate nelle carceri di Potenza e Matera dal 2013. Come è nato tutto?

Non è stato un progetto, ma una relazione. È nato con un primo laboratorio di teatro-danza e da lì si è trasformato in un percorso continuo che ogni anno si è allargato. All’inizio era Teatro Oltre i Limiti: teatro fisico e danza come luoghi sicuri di ascolto e creatività. In questi anni abbiamo visto che quando entra l’arte, entra anche la vita. Il teatro diventa un laboratorio di umanità, consente di uscire per un attimo dalla logica della sopravvivenza.

L’evoluzione naturale è stata IN_OUT, che nasce dalla domanda: come possiamo portare nel carcere linguaggi contemporanei, tecnologie nuove, visioni che il tempo di detenzione normalmente interdice?

Come funzionano i laboratori misti tra detenuti, studenti e performer?

L’incontro avviene attraverso il corpo, il movimento, il fare insieme. In carcere il corpo è spesso controllato, irrigidito. Per uno studente o un performer può essere territorio di esplorazione. Quando lavorano insieme, questi corpi così diversi si ricalibrano, cercano un ritmo comune.

È un incontro alla pari: tutti devono esporsi, ascoltare, affidarsi. Quando questi mondi si incontrano cadono le etichette. Il detenuto non è più solo “detenuto”, lo studente non è più “esterno”. Per qualche ora il confine tra dentro e fuori diventa poroso.

In dodici anni qual è stata la difficoltà maggiore con le istituzioni?

Trasformare la percezione del nostro lavoro da attività volontaristica a pratica professionale integrata nel trattamento: far capire che il teatro non è intrattenimento, ma pratica educativa che richiede competenze stabili, tempi lunghi e continuità. Questo comporta cambiamenti organizzativi — orari, spazi, personale — e risorse strutturate, non solo bandi episodici. La fiducia si costruisce nel tempo, con ascolto e professionalità.

Cosa succede ai detenuti quando escono dal carcere?

Nei percorsi IN_OUT è previsto un monitoraggio pre/durante/post in partnership con l’Ordine degli Assistenti Sociali. Inoltre la formazione professionale — scenotecnica, fonica, produzione digitale — e la rete con realtà territoriali aumentano le possibilità di continuità lavorativa.

Dal 2025 collaboriamo con STRA.D.E., un progetto che unisce terzo settore, istituzioni penitenziarie, Comuni, Tribunale di Sorveglianza, centri per l’impiego e imprese per costruire percorsi integrati di inserimento lavorativo.

Progetti come il vostro rischiano di trasformare il carcere in spettacolo per il pubblico “da fuori”? Penso a fiction come Mare Fuori che romanzano il carcere minorile…  

Sì, il rischio esiste. Per questo non produciamo spettacoli-sensazione né spettacolarizziamo la sofferenza. Il lavoro privilegia i processi — laboratorio, formazione, produzione condivisa — e la responsabilità etica. Il pubblico entra, ma il dispositivo è pensato per rispettare dignità e consenso. Il principio è che il teatro non è confessione né voyeurismo.

Penso a violenze e torture in carcere, Santa Maria Capua Vetere ne è l’esempio più noto. Il teatro può essere strumento di trasformazione anche per gli agenti penitenziari?

Sì. Il progetto ha coinvolto anche personale dell’area trattamentale e agenti, creando nuovi registri di collaborazione: il teatro modifica relazioni, linguaggi e pratiche quotidiane, favorendo maggiore consapevolezza. Non è una soluzione unica alle violenze strutturali — per quelle servono politiche istituzionali — ma può essere un dispositivo di sensibilizzazione e cambiamento culturale.

I media raccontano il carcere solo per rivolte ed evasioni. Cosa è cambiato nella percezione pubblica del carcere grazie al vostro lavoro?

Sono cambiati alcuni sguardi locali: il carcere è stato visto come luogo di produzione culturale e non solo come problema da cronaca nera; la cittadinanza ha potuto partecipare, diminuendo gli stereotipi. Ma la narrazione nazionale resta sensazionalistica: serve maggiore continuità di progetto e politiche che riconoscano cultura e formazione come parte del trattamento.

Può raccontarci un momento che le ha fatto capire perché questo lavoro è necessario?

Ricordo Alessandro: aveva pochissime competenze linguistiche, un’infanzia con i nonni in campagna. Nelle improvvisazioni emergevano immagini di un essere umano libero, immerso nella natura. Eppure è stato capace di canalizzare tutto questo attraverso le regole del laboratorio: il training, la parola, il testo diventavano strumenti per esprimere se stesso.

Il momento che ancora mi commuove: Alessandro entra nello spazio, ci guarda, retrocede, poi va verso il muro di fondo. A otto metri da noi, allunga la mano destra e con l’indice disegna una finestra, un rettangolo preciso, uno spazio dentro cui stare. Quel gesto semplice e silenzioso trasforma fragilità e storia in un’immagine capace di parlare a tutti.

Tra tre anni finiscono i fondi ministeriali. Se non li rinnovassero, continuereste?

Siamo arrivati fin qui senza fondi ministeriali. Dal 2012 al 2025 abbiamo continuato costruendo progetti, vincendo bandi, tessendo una rete che oggi è la nostra vera forza: fondi regionali, fondazioni, sponsor locali, collaborazioni.

Se non li rinnovassero, faremo ciò che abbiamo sempre fatto: andare avanti. È una scelta di responsabilità verso le persone con cui lavoriamo. Bisognerebbe ripensare dimensioni e modalità, ma la continuità piena ha bisogno di finanziamenti strutturali. Senza sostegno stabile si rischia di perdere continuità, qualità, relazione. Però non ci siamo fermati per dodici anni e non ci fermeremo ora: continueremo costruendo possibilità.

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