di Alessia de Antoniis
Piero Ambrosi pubblica Tiziano Terzani, l’Asia dentro l’imbrunire (fuorilinea, 2025), un lavoro dove non entra da biografo, ma da lettore che si espone. Dichiarandosi “cercatore”, mette Terzani al centro non come figura da ricostruire, ma come traiettoria da attraversare; gli “cede la voce” e si prende la responsabilità della scelta.
La tesi è netta il Terzani “spirituale” non nasce in alternativa al Terzani “di parte”, nasce dopo aver visto fin dove arriva il potere quando pretende di rifare l’uomo. . L’utopia al governo, suggerisce il testo, può produrre in serie campagne assassine di eliminazione del dissenso: è lì che crolla l’innocenza ideologica e comincia la ricerca, non come fuga ma come contro-educazione.
Quello che ne risulta non è un santino di Terzani: è il referto di una disillusione politica che non si limita a cambiare opinione, ma cambia campo di battaglia. Ambrosi lo dice senza giri: l’utopia al governo produce campagne assassine. Quindi la domanda non è più “chi ha ragione?”, ma “che cosa salva l’umano?”.
Ambrosi dichiara il suo metodo — “ho seguito… cedendogli la voce” — e costruisce un montaggio fitto di citazioni e scene, dove la vita di Terzani appare come una lunga conversione non religiosa ma percettiva.
La prima metà, Asia, utopia e disincanto, racconta il laboratorio in cui un’idea di giustizia si incrina. Ambrosi insiste sull’Asia “tradita due volte”: dai miti rivoluzionari diventati apparati di repressione e dalla resa degli Stati asiatici a un Occidente ormai esportabile come format. Il punto non è la delusione del singolo; è la dinamica ricorrente per cui la promessa di emancipazione si trasforma in amministrazione del terrore. In quelle pagine, Terzani è meno giornalista di guerra e più testimone della metamorfosi dei liberatori in oppressori; osservatore della facilità con cui l’occidentale sa autoassolversi.
Dentro questo stesso movimento, Ambrosi innesta una delle sue formule più taglienti: Terzani “intuisce con largo anticipo” gli effetti perversi di una globalizzazione ridotta a “circolazione di capitali”, dove i diritti diventano merce negoziabile e la memoria un intralcio. È il punto in cui la politica smette di promettere e comincia a uniformare: normalizza i regimi, impone un linguaggio globale, “bombarda” il mondo di consumo e lo rende più docile — senza radici, senza tradizioni.
Da qui si capisce perché il 1993, nel disegno del libro, non sia una “svolta spirituale” in senso decorativo, ma un cambio di postura. Il capitolo sulla profezia e sul viaggio senza aerei (1993, anno della rinascita. La profezia benedetta) serve ad Ambrosi per mostrare Terzani mentre accetta una regola assurda per recuperare qualcosa di elementare: il tempo, il corpo, l’attrito del mondo. È un gesto contro la velocità e contro l’onnipotenza, un modo di rimettere in discussione l’idea che conoscere significhi dominare. E in filigrana, già si intravede il tema che esploderà dopo la malattia: il rapporto tra libertà e limite, tra identità e spoliazione.
La parte indiana non è raccontata come un “Oriente che salva”: Ambrosi è troppo onesto (e Terzani troppo inquieto) per scivolare nel turismo mistico. “India, spiaggia di spiritualità” indica un approdo, non una soluzione. La materia decisiva non è l’esotismo, ma la resistenza: l’India come luogo dove sopravvive un’idea di interiorità, di riti, di domande ultime che l’Occidente tende a considerare imbarazzanti o improduttive.
Ed è qui che Ambrosi è particolarmente efficace: non trasforma Terzani in un guru, anzi insiste sull’opposto. Lo dice con chiarezza: non un uomo della “Verità rivelata”, non un convertito, non un fondatore di culto; semmai un viandante che attraversa pezzi di fede e brandelli di certezza senza potersi fermare in nessun recinto. Questa puntualizzazione, che sembra prudenza, in realtà è politica: serve a sottrarre Terzani alla mitologia consolatoria che spesso lo circonda.
L’ultima sezione, tra Himalaya e Orsigna, sposta l’asse sulla morte. È qui che Ambrosi fa il suo gesto più “occidentale contro l’Occidente”: mostra Terzani mentre, morente, “sfida il conformismo silente sulla morte” e, insieme, mostra un’intera comunità culturale incapace di nominare l’inevitabile senza trasformarlo in tabù o in spettacolo. La frase del figlio Folco — “frizzante, luccicante, vitale uscita di scena” — non viene usata come effetto speciale, ma come scandalo: possibile che un congedo sia anche un atto vitale? possibile che “ogni fine” sia davvero “un nuovo inizio”? Ambrosi non pretende di dimostrarlo: ci porta fin lì e ci lascia con la domanda addosso.
In questo senso il libro è più che una guida a Terzani: è un prisma che scompone la sua luce politica, etica, spirituale, senza inventare lampadine nuove.
Il limite è inscritto nella stessa scelta: “coinvolgimento di parte” e “gratitudine”. Per alcuni lettori sarà una forza (Ambrosi non finge un’oggettività di maniera); per altri rischia di ridurre lo spazio del contraddittorio. Inoltre il montaggio di citazioni, pur efficace, può risultare familiare a chi ha Terzani in memoria. Ma Ambrosi, almeno, non bara: dichiara il patto e lo rispetta.
Resta una frase, nel Post scriptum, che può stare come epigrafe non solo al libro ma anche al nostro tempo: “La Fede non è una risposta, ma il sostegno a una domanda di senso.” È un modo sobrio per dire che l’ultima eredità di Terzani non è una dottrina, né un’illuminazione vendibile. È un esercizio: imparare a stare nella domanda senza morire di cinismo. E magari, ricordarci l’unica certezza logistica dell’esistenza: “non hanno ancora inventato la bara con il portabagagli”.