Metà degli italiani maggiorenni non sa che l’8 e il 9 giugno si vota per cinque referendum. Lo certifica un sondaggio di Swg per il Tg La7: solo il 54% degli aventi diritto si dichiara “informato” sulle consultazioni in arrivo.
La notizia è di per sé stupefacente, visto che quattro dei cinque quesiti riguardano un tema universale e fondativo della nostra repubblica: il lavoro. Si tratta di scegliere se vogliamo che i lavoratori siano precari, sfruttati e malpagati, oppure se preferiamo difenderne i diritti.
Le élite politico-finanziarie sarebbero ovviamente felici se la tornata referendaria fallisse per via del mancato raggiungimento del quorum, come ha apertamente detto il Presidente del Senato Ignazio La Russa. Non a caso, la tv di Stato e in generale il mainstream mediatico non ne parlano. Meno se ne sa, meglio è.
I motivi di questo silenzio diffuso sono quanto mai evidenti. Tre quesiti riguardano l’abrogazione di buona parte del Jobs Act, la disgraziata legge renziana del 2014 che ha precarizzato il lavoro più di quanto non fosse riuscito a fare il centro-destra negli anni fulgidi del berlusconismo. Il governo Renzi, infatti, ha abrogato l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori con l’esito di compromettere in via definitiva il contratto a tempo indeterminato, dal momento che è stato eliminato l’obbligo di reintegro nel posto di lavoro per gli imprenditori con più di 15 dipendenti che licenziano un lavoratore senza giusta causa. Il Jobs Act, inoltre, ha istituito un tetto – al massimo sei mensilità di stipendio – all’indennità di risarcimento che spetta di diritto ai lavoratori licenziati ingiustamente dalle piccole imprese, e ha sollevato i datori di lavoro dall’obbligo causale per i contratti inferiori a 12 mesi.
Il quarto quesito concerne invece il più recente ma altrettanto sciagurato Codice degli Appalti, approvato dal governo Meloni nel 2023 che, liberalizzando i subappalti a cascata e deresponsabilizzando le ditte appaltanti, priva di fatto i lavoratori di diritti e tutele, comprese quelle relative alla loro sicurezza.
Si tratta di questioni fondamentali che non interessano a politici, imprenditori, lobby, gruppi di interessi e fiancheggiatori delle classi dirigenti, ma riguardano la vita di milioni di italiani che lavorano. Chi di noi non sia direttamente coinvolto, ha certamente un figlio, un nipote o un fratello che all’attuale “contratto a tutele crescenti” – ma mai assolute – preferirebbe il vecchio contratto a tempo indeterminato, che sarebbe contento di ricevere un indennizzo deciso liberamente dal giudice senza che la legge ponga dei limiti, e che apprezzerebbe sapere quale ostacolo insormontabile gli impedisca di avere un contratto di durata superiore a un anno. Infine, è universalmente comprensibile che la liberalizzazione dei subappalti a cascata, senza regole e senza controlli, danneggia non solo la qualità delle opere, ma anche i salari, la sicurezza, e ogni altro diritto dei lavoratori coinvolti.
La cieca fiducia nella deregolamentazione del mercato del lavoro, portato storico del vento neo-turboliberista che da un paio di decenni soffia in Occidente, ha avuto conseguenze gravissime sulle condizioni di vita e sui diritti dei lavoratori: salari bassi, contratti capestro, lavoro nero, più morti sul lavoro… In una parola: insicurezza, da ogni punto di vista.
Finalmente, oggi le masse lavoratrici hanno la possibilità di riscattarsi da questa condizione di minorità coatta in cui le élite finanziarie e le classi dirigenti – di destra e di sinistra – le hanno costrette. Eppure, metà di loro non sa di averla.
Serve un appello generalizzato alle forze sociali, civili e politiche che sono davvero dalla parte giusta della barricata: che da qui all’8 Giugno si impegnino a informare i cittadini, affinché vadano a votare “sì” in nome della democrazia, dei diritti costituzionalmente garantiti, e anche del proprio bene.