Referendum, perché andiamo a votare

Un’importante occasione di partecipazione della società civile. Le mie considerazioni su due referendum in particolare: quello sulla sicurezza sui luoghi di lavoro e quello sulla cittadinanza.

Referendum, perché andiamo a votare
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23 Maggio 2025 - 11.31 Culture


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di Alessandra Viviani*
Ordinaria di Diritto Internazionale dell’Università di Siena

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L’8 e il 9 giugno come cittadine e cittadini siamo chiamati a votare per 5 Referendum. Si tratta di quesiti che, come noto, mirano ad abrogare alcune normative esistenti in materia di lavoro e cittadinanza.

Una prima cosa che vorrei sottolineare è come questi cinque quesiti referendari siano il risultato di un’importante iniziativa di partecipazione della società civile nel suo complesso che ha visto la collaborazione tra sindacato e associazioni di varia natura, portando alla raccolta di oltre 4 milioni di firme. In  un momento storico in cui sembra che la politica sia incapace di dialogare con la società civile, questo impegno così diffuso offre lo spunto per riflessioni postive.

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Personalmente, pur condividendo l’impianto e le ragioni di tutti i quesiti referendari, vorrei qui concentrare le mie considerazioni su due referendum in particolare: quello sulla sicurezza sui luoghi di lavoro e quello sulla cittadinanza.

Per quanto riguarda il quesito sulla sicurezza sui luoghi di lavoro, esso richiede l’abrogazione dell’art. 26, comma 4, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro e successive modificazioni, limitatamente alle parole “Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici”; in altre parole si tratta di eliminare quelle norme che impediscono, in caso di infortunio patito da dipendenti di ditte in appalto, di estendere la responsabilità all’impresa appaltante.

I dati nel nostro Paese sugli incidenti sui luoghi di lavoro sono drammatici. Nel 2024 in Italia si sono registrate 1.090 morti sul lavoro, con un incremento del 4,7% rispetto all’anno precedente, con 156 persone morte nel settore dell’edilizia. È evidente come in questo settore la questione degli appalti sia centrale: le infinite catene di appalti e subappalti rendono di fatto spesso virtualmente impossibile garantire il rispetto delle condizioni di sicurezza, aumentando il rischio di incidenti gravi e mortali, spesso mimando anche la possibilità di ottenere un adeguato risarcimento dei danni. Estendere la responsabilità a chi sta al vertice della catena degli appalti è l’unica forma possibile per invertire la rotta in tema di sicurezza di chi lavora.

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L’abrogazione della norma contestata, a mio avviso, può anche leggersi nel senso del rispetto degli obblighi positivi che gli Stati hanno in materia di tutela dei diritti umani. Ai sensi della Convenzione ILO n. 155 (Convenzione sulla sicurezza e la salute sul lavoro, 1981), infatti, lo Stato deve garantire il rispetto, da parte dei datori di lavoro, delle loro principali responsabilità relativamente alla garanzia di luoghi di lavoro, macchinari, attrezzature e processi sicuri e privi di rischi per la salute dei lavoratori. Allo stesso modo, la Convenzione ILO n. 187 (Promotional Framework for Occupational Safety and Health – 2006) rende esplicito il dovere dello Stato (Art.4) di creare un “sistema nazionale” per la sicurezza sui luoghi di lavoro che comprenda leggi e regolamenti, ma anche contratti collettivi e meccanismi di monitoraggio che siano adeguati ed efficaci. Rispondendo sì al quesito referendario contribuiamo direttamente al rispetto degli standard internazionali per il rispetto dei diritti di chi lavora, nella prospettiva della concreta realizzazione dei loro diritti umani.

La stessa prospettiva che si fonda sul rispetto degli standard internazionali in materia di tutela dei diritti umani è quella che mi spinge al al quesito che mira ad abrogare l’articolo 9, comma 1, lettera b), della legge 5 febbraio 1992, n. 91 sulla cittadinanza.  Il tema di come si acquisisce la cittadinanza riguarda infatti la vita di molte persone, che rappresentano più del 9% della popolazione residente. Persone che incontriamo a scuola, all’università, nei nostri ospedali, in tutti i luoghi di lavoro e nelle nostre stesse case. Occuparci dei loro percorsi di vita, dare loro la possibilità di scegliere come far parte delle nostre comunità, in modo concreto ed effettivo significa anche riconoscere e dare dignità ai ruoli che già ricoprono. Solo il 35% delle persone straniere residenti in Italia ha acquisito la cittadinanza, e sono più di 2 milioni coloro che risultano regolarmente residenti da almeno cinque anni nel nostro Paese e quindi potenzialmente interessati dal risultato del referendum. Non possiamo disinteressarci e voltare lo sguardo altrove. La modifica proposta con il referendum che riporta il criterio della residenza in Italia a 5 anni, come era prima della riforma del 1992, consentirebbe di rendere il percorso per divenire cittadine e cittadini più agevole. Non è, infatti, facile dimostrare in pratica i richiesti dieci anni di residenza ininterrotta nel nostro Paese, tenuto conto anche del fatto che spesso le persone straniere lavorano in nero ed hanno contratti di affitto irregolari. Tuttavia, credo la considerazione preminente in questo caso debba essere quella che riguarda la vita delle persone di minore età.

Per i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze che incontriamo nelle nostre scuole, e che complessivamente rappresentano l’11% di chi le frequenta, il cambiamento della legge avrebbe importanti ricadute positive. Diverrebbe, infatti, possibile per loro acquisire più facilmente la cittadinanza tramite i genitori, accelerando il percorso di inclusione ed eliminando la condizione di incertezza che molti patiscono nell’attesa di compiere 18 anni e poter presentare la domanda di cittadinanza in via autonoma. Partecipare alle gite scolastiche all’estero, agli eventi sportivi internazionali, al programma Erasmus sono tutte attività di fatto precluse, o rese estremamente complesse, per chi non è cittadino o cittadina. Smettere di avere paura, di chiedersi cosa accadrà in futuro, potersi sentire fino in fondo parte delle loro comunità è fondamentale. Essere invece esclusi e resi ancora più vulnerabili alla discriminazione rappresenta una inaccettabile violazione del diritto della persona di minore età a crescere e sviluppare le proprie potenzialità con il supporto di tutte le istituzioni pubbliche, scuola in primis. E non è un caso, ad esempio, che il Comitato delle Nazioni Unite sui diritti di infanzia e adolescenza, nelle sue Osservazioni Conclusive all’Italia del 2019, raccomandi proprio di “utilizzare un approccio basato sui diritti umani per l’intero sistema scolastico che sia maggiormente inclusivo dei minorenni appartenenti a minoranze e dei minorenni migranti e che sostenga le loro aspirazioni” (§ 32-a).

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Votare sì rappresenta un importante passo in avanti nella garanzia dei diritti umani, un passo che ritengo indispensabile fare oggi più che mai.

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