Il Gigante cinese occupa l'Afghanistan: il dopo Usa è già iniziato
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Il Gigante cinese occupa l'Afghanistan: il dopo Usa è già iniziato

Forze militari cinesi sono atterrate a Bagram e ne hanno occupato la base aeronautica, fino a due mesi fa in mano agli americani. Non si conoscono ulteriori dettagli sulle dimensioni dell’operazione. Ma...

Accordo tra Cina e talebani
Accordo tra Cina e talebani
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

3 Ottobre 2021 - 17.51


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Il Gigante cinese occupa l’Afghanistan. 

Forze militari cinesi sono atterrate a Bagram e ne hanno occupato la base aeronautica, fino a due mesi fa in mano agli americani. Non si conoscono ulteriori dettagli sulle dimensioni dell’operazione.

L’intervento cinese rientrerebbe nel quadro degli accordi tra Pechino e i talebani per la ricostruzione dell’Afghanistan. Una presenza militare nella base simbolo delle attività americane nel Paese assume un valore strategico per la Repubblica Popolare cinese che così rafforza il suo potere di controllo sul governo talebano. L’arrivo dell’aereonautica cinese che ha illuminato la notte nella base di Bagram, è stato salutata con grande entusiasmo da tutti i massimi esponenti talebani che si aspettano un pronto aiuto economico miliardario in un paese stremato dalla fame e dalla disoccupazione. 

Una settimana fa, gli inviati speciali di Cina, Russia e Pakistan sull’Afghanistan hanno visitato Kabul ieri e oggi “incontrando funzionari governativi ad interim afghani”. Lo ha riferito nel briefing quotidiano il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino Zhao Lijian, aggiungendo che “hanno avuto discussioni approfondite e costruttive sugli sviluppi in Afghanistan, in particolare su inclusività, diritti umani, questioni economiche e umanitarie, relazioni amichevoli tra l’Afghanistan e i Paesi stranieri, in particolare i Paesi vicini”. Gli inviati speciali di Russia, Cina e Pakistan concordano di mantenere contatti costruttivi con i Talebani dopo l’incontro di Kabul. Lo fa sapere il ministero degli Esteri russo, citato dalla Tass. 

Zhao, in seguito, ha fornito maggiori dettagli dicendo che gli inviati hanno incontrato il premier ad interim, il mullah Muhammad Hassan Akhund, e hanno discusso con i funzionari afghani del recente sviluppo della situazione nel Paese, dell’inclusione, dei diritti umani, dell’economia e delle relazioni con i Paesi vicini. Durante la loro visita, gli inviati hanno visto l’ex presidente afghano Hamid Karzai e il capo del Consiglio nazionale per la riconciliazione Abdullah Abdullah, parlando “della promozione della pace e della stabilità in Afghanistan”. Yue Xiaoyong, l’inviato cinese per l’Afghanistan, ha ribadito la politica di Pechino di “non interferenza negli affari interni dell’Afghanistan” e il suo ruolo costruttivo svolto “nella soluzione politica delle questioni afghane”, ha concluso Zhao. 

Il Gigante cerca una nuova Via

Rimarca Giuseppe Gagliano su Startmagazine: “L’Afghanistan – soprattutto per la Cina – rappresenta uno snodo fondamentale   per la Nuova Via della seta e per le risorse minerarie presenti. A proposito del modus operandi della Cina, si deve ricordare l’estrema abilità sotto il profilo politico che la Cina ha ancora una volta dimostrato nel costruire la propria tela intorno al regime talebano, come dimostra l’incontro avvenuto il 28 luglio in Cina tra il ministro degli Esteri cinese Wang Yi e Mullah Abdul Ghani Baradar. Durante il quale il ministro cinese non solo ha esplicitamente promesso il sostegno cinese per la ricostruzione dell’Afghanistan, ma contestualmente aveva anche chiesto in modo inequivocabile ai talebani di interrompere ogni legame con l’East Turkestan Islamic Movement (ETIM), accusato dal Dragone di aver posto in essere diversi attacchi terroristici nello Xinjiang. A tale proposito, infatti, non va dimenticato che per il dragone all’interno della etnia degli uiguri che vivono nello Xinjiang vi sarebbero persone affiliate all’organizzazione terroristica il cui scopo è quello di creare uno Stato islamico indipendente nel Turkestan dell’Est, cioè nello Xinjiang.

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Quattro motivi per dialogare

A elencarli, riempendoli di contenuti, è Claudio Bertolotti, Ispi Associate Research Fellow: “Il primo è la ricerca cinese di un’area di influenza da sottrarre agli Stati Uniti, che si stanno di fatto disimpegnando dal paese, e che, in un’ottica di competizione con l’India, consenta a Pechino di avere una continuità territoriale che dal Pakistan all’Afghanistan permetta di creare un ponte commerciale diretto con l’Iran e la Russia.

Il secondo è un più ampio margine di manovra nella tutela degli interessi legati alla Nuova Via della Seta che ha una diramazione in Pakistan e garantisce uno sbocco marittimo a sud: e un Afghanistan sicuro è una garanzia per gli investimenti cinesi perché un’amministrazione stabile e cooperativa a Kabul aprirebbe la strada a un’espansione della Nuova Via della Seta in Afghanistan e attraverso le repubbliche dell’Asia centrale.

Il terzo motivo è strettamente legato alla sicurezza interna della Cina, nello specifico l’opposizione violenta di alcuni gruppi jihadisti tra la comunità uigura dello Xinjiang e la conseguente politica repressiva del governo cinese. La frontiera tra i due paesi è lunga solamente 76 chilometri – e ad alta quota e priva di un collegamento stradale – ma Pechino teme che l’Afghanistan possa essere usato come base logistica per i separatisti e i jihadisti uiguri, con il sostegno degli stessi talebani. Ed è per questo che Wang Yi ha chiesto ai talebani di agire con determinazione e in qualunque modo per eliminare i gruppi uiguri presenti in Afghanistan, con esplicito riferimento al gruppo terrorista noto come movimento islamico del Turkestan orientale (ETIM, East Turkestan Islamic Movement), che Pechino considera una minaccia diretta alla sicurezza nazionale.

Infine, il quarto è un motivo strategico di natura economica: la Cina detiene la maggior parte dei diritti estrattivi dal sottosuolo afghano e l’Afghanistan, oltre ad essere ricca di idrocarburi – è cinese l’azienda che per prima ha estratto petrolio nel paese – è forse la più ricca miniera al mondo a cielo aperto di minerali preziosi e minerali rari, strategicamente importanti per l’economia cinese che avrebbe accesso diretto a una ricchezza dal valore potenziale di 3 trilioni di dollari. Ma l’Afghanistan deve essere stabilizzato per consentire l’accesso cinese all’area, e qui entrano in gioco i talebani ai quali sarebbe garantito il riconoscimento politico e l’accesso agli ampi guadagni derivanti dalle attività estrattive e commerciali.

I Talebani hanno garantito ai cinesi che l’Afghanistan non sarà utilizzato da gruppi terroristi per colpire altri stati (e dunque la Cina). Ma è bene ricordare che sono gli stessi talebani che pochi mesi fa hanno garantito agli Stati Uniti che avrebbero cessato le violenze per dialogare con il governo afghano. Non dobbiamo farci illusioni, né essere sorpresi per l’interesse cinese per l’Afghanistan”.

Guerra intra-jihadisti

Tre cadaveri sono stati esposti dai Talebani nella provincia del Nangarhar, nell’Afghanistan orientale. Lo ha riferito l’agenzia di stampa Bakhtar. Un portavoce dei Talebani ha confermato la notizia all’agenzia Dpa sostenendo che non è chiaro chi sia dietro gli omicidi, mentre fonti locali hanno sostenuto che si tratti di tre sospetti affiliati ad Isis-K, il ramo afghano del sedicente Stato islamico, ‘giustiziati’ dai Talebani. Due dei cadaveri sono stati impiccati a Jalalabad, il capoluogo della provincia, e un terzo nel distretto di Chaparhar. La scorsa settimana aveva suscitato orrore l’immagine dei corpi di altri quattro uomini, tutti accusati dai Talebani di essere dei rapitori, appesi in diverse località di Herat, nell’Afghanistan occidentale. Su uno dei cadaveri, i Talebani avevano messo un cartello di avvertimento: ”chiunque oserà rapire qualcuno verrà punito in questo modo”.

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Gli attacchi dell’Isis contro i talebani

Intanto sempre nella provincia del Nangarhar,  dove si concentrano i terroristi dell’Isis, ieri ci sono stati 5 morti in due diversi attacchi. Tra le vittime ci sono un giornalista, identificato come Sayed Maroof Sadat, un civile e due talebani. In un altro attacco avvenuto nella provincia settentrionale di Jawzjan, una bomba è esplosa durante un ricevimento di nozze, provocando la morte della sposa ed il ferimento di altre due persone. Secondo le prime informazioni, non si tratterebbe di un attentato terroristico, ma di una faida famigliare.

L’altro ieri  il portavoce talebano Bilal Karimi ha invece riferito di un attacco dai jihadisti dell’Isis in Afghanistan nella provincia settentrionale di Parwan.  di un’esplosione nel capoluogo provinciale di Charikar. Nella deflagrazione sono rimasti “lievemente feriti” cinque membri delle forze di sicurezza talebane, ha detto Karimi. Come rappresaglia, le forze speciale dei Talebani hanno attaccato un covo dell’Isis vicino al luogo dell’esplosione, distruggendolo, ha detto Karimi. Inoltre le forze speciali dei Talebani hanno arrestato due combattenti dell’Isis nella zona.

La variante K

“Isis-K  – rimarca Gianluca Di Feo in un documentato report su Repubblica – vuole impedire qualsiasi stabilizzazione dell’Afghanistan. Combatte i talebani come negli scorsi anni ha cercato di aizzare la guerra civile, seminando bombe tra la comunità sciita degli hazara e la minoranza tagika. La sua roccaforte è sul confine pachistano, non lontano da Tora Bora dove Osama Bin Laden riuscì a sfuggire agli americani, con una radicata presenza nella capitale. Gli avanguardisti del Daesh non faticheranno a trovare armi più potenti, rifornendosi negli arsenali abbandonati dall’esercito nazionale, e probabilmente finanziatori stranieri interessati a indebolire i talebani. Con queste nuove energie cercherà di mettere a segno altri colpi clamorosi contro gli occidentali, necessari a propagandare le sue capacità ed arruolare reclute. E farà di tutto per creare cellule armate in Tagikistan, Uzbekistan e Kyrgyzstan. Lo scenario più terribile è che, sull’onda di Kabul, questa epidemia rivitalizzi le schegge dello Stato Islamico disperse nel Medio Oriente dopo la disfatta di Mosul: l’ultimo comandante militare del Califfato era proprio un tagiko – Gulmurad Khalimov – ucciso nel 2017 dai russi in Siria. Isis-K non è che una delle tante sigle letali in grado di svilupparsi dal focolaio afghano. Nella galassia magmatica del fondamentalismo armato vengono già segnalate altre frange – come il Tehreek-e-Taliban pachistano – che aprono sedi a Kabul, convinte finalmente di avere un’oasi dove agire alla luce del sole. Una situazione peggiore a quella anteriore all’11 settembre: gli Stati Uniti non avranno neppure una base nei Paesi vicini, mentre all’epoca potevano almeno contare sulle postazioni in Tagikistan e Kyrgyzstan, che adesso sono tornati al fianco di Mosca. Infiltrare spie sul terreno diventerà difficile, sia per la sfiducia generata dalla ritirata, sia per l’assenza di strutture stabili. La sorveglianza sarà affare di satelliti, droni e intercettazioni. Ossia la rete elettronica che ha fallito nel prevenire la distruzione delle Torri Gemelle: dallo spazio è impossibile distinguere una fattoria afghana da un comando di Al Qaeda, mentre le salve di missili lanciate più volte contro Osama Bin Laden non hanno mai scalfito la sua organizzazione. Lezioni di cui non abbiamo saputo fare tesoro”, conclude Di Feo.

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D’altro canto, anche i servizi americani non riescono più a negare che Isis abbia ormai il controllo di vaste e popolate aree nella provincia di Nangarhar e che la sicurezza, nella zona, sia particolarmente deteriorata. La strategia dell’Isis in Afghanistan è stata quella di attingere le nuove forze fresche proprio dal movimento talebano.

Una recente inchiesta della Bbc metteva in evidenza come l’adesione allo Stato Islamico fosse divenuta economicamente più appetibile per gli afghani, considerato lo stipendio di 500$ mensili, cui il movimento talebano (in guerra dal 2001) non può sicuramente entrare in concorrenza. Dunque più si indeboliscono i talebani, più si rafforza l’Isis.  E per contrastarne la penetrazione i talebani schierano le loro forze speciali contro Isis. Il loro nome ufficiale è saraqitah “Red Group, Danger Group o Red Cell”. L’Emirato Islamico ha annunciato di aver schierato nell’est del Paese, in particolare tra le province di Laghman e Nangarhar, le sue unità top per dare la caccia ai piccoli gruppi Daesh presenti in zona e consolidare la leadership. Ciò dopo che i miliziani dello Stato Islamico avevano inflitto perdite alla formazione concorrente, conquistando porzioni di territorio. Finora, invece, i commandos jihadisti avevano operato soprattutto nel sud della nazione asiatica, nella guerra contro le forze di sicurezza (Ansf) di Kabul. Perciò, l’Isis – che in passato era definita spregiativamente poco più di una banda di criminali – è stato promosso a nemico numero. Forse anche prima delle forze internazionali e delle istituzioni afghane. Il pericolo di un progressivo sbilanciamento di forze a favore delle bandiere nere era stato denunciato dallo stesso leader Mullah Omar, ora defunto, in una lettera proprio rivolta al (pure lui defunto) Califfo Al-Baghdadi. Nella stessa il Mullah intimava il Califfo di “non cercare di penetrare in Afghanistan” e che la sua azione stava “pericolosamente dividendo il mondo musulmano. Nessuno –  spiega un comandante talebano intervistato dal Guardian – sa chi sia la figura di riferimento di queste persone in Afghanistan e Pakistan. Semplicemente sono gruppi di una decina di persone che vanno su e giù per le montagne”. Le giovani reclute, sottolinea l’intervistato, e i Talebani sono mondi separati. Entrambi i gruppi puntano all’imposizione della sharia, la legge islamica, ma il Califfato non riconosce Stati né confini nazionali, mentre i Talebani sono nazionalisti che vogliono trasformare il proprio Paese. Sempre secondo il comandante talebano intervistato dal Guardian, ci sarebbe anche una differenza dottrinale. “Quando le persone – afferma  – chiedono ai militanti del Califfato che missione stia compiendo, loro rispondono ‘la vostra fede è debole e noi vogliamo renderla più forte'”. Gli ideologi dell’Isis sarebbero quindi troppo settari e intolleranti per i Talebani. Ed eserciterebbero una violenza cieca e insensata che i ribelli afgani avrebbero da anni respinto. Questi ultimi avrebbero quindi rinnegato la furia distruttrice verso opere d’arte e intere comunità esercitata in passato.  

Una guerra nella guerra. La guerra dei Jihad.  

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