Israele dispiega una nuova dottrina militare in Iran che trasforma il Medio Oriente
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Israele dispiega una nuova dottrina militare in Iran che trasforma il Medio Oriente

Israele adotta una dottrina di attacchi preventivi mirati in profondità nel territorio iraniano, segnando una svolta strategica che ridefinisce gli equilibri regionali.

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19 Giugno 2025 - 16.33


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Per quasi vent’anni, Israele ha evitato una guerra totale con i suoi principali nemici.

Ha combattuto conflitti contenuti con Hamas, ma ha comunque permesso al gruppo di mantenere il potere a Gaza. Ha mantenuto una calma precaria con la milizia libanese Hezbollah, anche quando i suoi combattenti si trinceravano nel sud del Libano. E sebbene avesse pianificato un grande attacco contro l’Iran, si era limitato a operazioni clandestine di minore entità.

L’assalto massiccio e prolungato lanciato oggi contro l’Iran rappresenta invece un cambiamento radicale nella dottrina militare israeliana, scattato dopo l’attacco del 7 ottobre 2023 da parte di Hamas, alleato palestinese dell’Iran. Questo mutamento ha ridefinito gli equilibri di potere in Medio Oriente, incrinato l’alleanza regionale dell’Iran e consacrato Israele come forza militare dominante nella regione.

Dopo aver lasciato che Hamas si preparasse per anni al 7 ottobre, Israele ha invertito la rotta e avviato una delle campagne militari più distruttive degli ultimi decenni. Ha eliminato la gran parte della leadership di Hezbollah, devastato il sud del Libano e ora, contro l’Iran, sta attuando proprio quel tipo di attacco su larga scala che aveva a lungo minacciato ma mai osato mettere in pratica.

“Stiamo cambiando il volto del Medio Oriente”, ha dichiarato lunedì il primo ministro Benjamin Netanyahu in conferenza stampa. “E questo potrebbe portare a cambiamenti di vasta portata anche all’interno dell’Iran”.

Per ora, quest’ultima affermazione resta da dimostrare. La campagna militare ha sì indebolito l’Iran, ma non ha ancora distrutto il suo programma nucleare né rovesciato il regime. E potrebbe non riuscirci affatto. Il conflitto rischia anzi di trasformarsi in un pantano, senza una strategia d’uscita né una chiara conclusione.

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Il ragionamento più ampio di Netanyahu, tuttavia, appare più difficile da contestare: Hamas non rappresenta più una minaccia per Israele. L’influenza di Hezbollah in Libano — e il pericolo che comportava per gli israeliani — si è drasticamente ridotta. Il governo siriano, pilastro dell’alleanza regionale iraniana, è caduto nel dicembre scorso, anche perché Hezbollah non era più in grado di sostenerlo.

Tali sconvolgimenti riflettono anche un profondo cambiamento nella mentalità strategica israeliana dopo l’attacco del 7 ottobre.

“Nel ventennio precedente, abbiamo lasciato che le minacce si sviluppassero ai nostri confini, fidandoci dell’intelligence per anticipare ogni attacco”, ha spiegato il generale Amos Yadlin, ex capo dell’intelligence militare israeliana.
“Il trauma del 7 ottobre ha stravolto quella logica. Ora siamo disposti a correre rischi che prima non prendevamo. Non aspetteremo più di essere colpiti o sorpresi”.

Questa nuova linea rievoca la strategia israeliana dei primi decenni dello Stato: agire in modo rapido e deciso per neutralizzare le minacce ai propri confini. Il caso più noto fu quello del giugno 1967, quando Israele attaccò preventivamente l’Egitto dopo che quest’ultimo aveva schierato truppe al confine meridionale.

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La nuova dottrina è il risultato di mesi di rivalutazioni strategiche, che hanno permesso all’esercito di recuperare la fiducia perduta dopo il disastroso 7 ottobre.

All’inizio, Israele ha reagito con furia contro Hamas, ma ha mostrato cautela con Hezbollah e con l’Iran. Nelle prime settimane della guerra, Netanyahu aveva bloccato un attacco preventivo contro Hezbollah, temendo un’escalation su più fronti. Per quasi un anno, Israele ha condotto una guerra di bassa intensità lungo il confine nord. Anche quando, nel 2024, sono aumentati gli scontri con Teheran, Israele ha continuato a contenere le sue operazioni per evitare un conflitto aperto.

Il punto di svolta è arrivato a settembre, quando una serie di azioni inattese ha permesso a Israele di eliminare buona parte della leadership di Hezbollah. L’invasione terrestre del sud del Libano e l’uccisione del segretario generale Hassan Nasrallah hanno aumentato la fiducia nei mezzi offensivi e difensivi israeliani. Una volta indebolite le difese aeree iraniane e respinte con successo le ondate di missili lanciati da Teheran, Israele ha intravisto un’opportunità irripetibile: colpire duramente il programma nucleare iraniano.


Tuttavia, se la nuova strategia ha intaccato l’influenza regionale dell’Iran, non ha risolto il conflitto più antico e irrisolto di Israele: quello con i palestinesi.

A Gaza, la rappresaglia israeliana ha provocato distruzione su larga scala e migliaia di morti, riaffermando il potere militare dello Stato e riducendo la minaccia rappresentata da Hamas, almeno per la prossima generazione.

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Ma non ha fornito una visione chiara sul futuro della Striscia né sulla questione palestinese in generale. Netanyahu ha sempre rifiutato le ipotesi di una tregua, escludendo che Hamas possa mantenere il controllo o che altri attori palestinesi moderati possano subentrare.

“Alla fine ci restano solo opzioni sbagliate”, ha affermato Tzipi Livni, ex ministra degli Esteri israeliana.
“Occupazione o caos. Invece di avviare un processo diplomatico che coinvolga attori palestinesi e regionali moderati, che potrebbe cambiare la realtà per entrambe le parti”.

Secondo alcuni analisti, una dinamica simile potrebbe verificarsi anche in Iran, se Israele non definisse obiettivi chiari né una via d’uscita.

Al momento, le autorità israeliane sperano che gli Stati Uniti si uniscano all’attacco per contribuire alla distruzione delle centrali di arricchimento dell’uranio. Ma se Washington restasse fuori dal conflitto e Teheran non interrompesse il proprio programma nucleare, la nuova dottrina israeliana potrebbe non produrre i risultati dirompenti che molti sperano.

“Viene da chiedersi se un’azione militare efficace sia accompagnata da una visione politica seria”, ha detto Nimrod Novik, ex funzionario israeliano e membro dell’Israel Policy Forum.
“O se, come a Gaza, resteremo ancora una volta senza un epilogo. Lo scopriremo solo col tempo”.

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