L’azione terrorista condotta da un affiliato dell’Isis in Siria, a Palmira, e che è costata la vita a tre appartenenti al sempre più ristretto contingente militare statunitense in Siria non può che avere ripercussioni sulla precaria stabilità del Paese che in larga parte è governato dal nuovo regime dell’ex jihadista al-Sharaa, ora entrato nella coalizione internazionale contro l’Isis, e nelle regioni nord-orientali dai curdi e quindi dal loro comparto militare, le Syrian Democratic Forces, SDF.
Si tratta di un soggetto molto importante visto che dal 2014 ha condotto sul campo la guerra all’Isis per conto della coalizione. Ma ora avrebbe, o dovrebbe avere, un partner di chiaro rilievo, visto che chi gestisce la Siria ha conosciuto molto bene l’Isis, avendoci militato e avendolo poi combattuto dal fronte islamista. I loro rapporti però sono a dir poco difficili.
Washington vuole un coordinamento tra le intelligence di curdi e siriani, ma l’intesa quadro per il governo unitario della Siria e dell’esercito è ancora lontana, e questo non favorisce il coordinamento tra le intelligence, ovviamente. Il recente trasferimento di alcuni leader dell’Isis da prigioni locate in Siria in altre controllate dagli americani in Iraq indicherebbe un coordinamento tra curdi e iracheni. E i nuovi partner di Washington, i siriani di al Sharaa? La scossa più forte è venuta nelle ore trascorse, con la decisione di Trump di proibire l’ingresso negli Stati Uniti anche ai siriani. E’ molto imbarazzante per Damasco che a compiere l’attentato sia stato un membro del suo esercito con idee estremiste e violente e che stava per essere espulso. La “pulizia” che al Sharaa deve fare soprattutto tra i foreign fighters che ha aggregato al suo “esercito provvisorio” per avere una forza armata su cui basarsi, diviene chiaramente un’urgenze. L’intelligence di al-Sharaa assicura che, dopo le recenti operazioni di successo contro l’Isis condotte con la sua partecipazione, cinque complici dell’attentatore sono stati arrestati. Un’intesa dunque converrebbe a tutti. Il problema è come strutturarla. E, forse soprattutto, quando. Come è noto negoziati sono in corso anche in Turchia con i curdi, ed è quasi certo che Ankara abbia chiesto a Damasco di aspettare che turchi e curdi completino il negoziato prima di fare qualsiasi concessione. E’ questo il problema del necessario decentramento: riguarda tutti coloro che abitano una regione, curdi e arabi di diversi fedi, o riguarda solo determinati gruppi etnici? Così è chiaro che emergerà il sospetto di separatismo e che il centralismo, magari tenuto nelle mani di un solo soggetto, di una sola comunità, diverrà altrimenti facilmente irriguardoso degli altri.
Un’intervista del leader curdo Mazlun Abdi al Jerusalem Post, nella quale ha lamentato una riduzione dell’interesse internazionale per le sue SDF con l’avvento di Trump e la chiusura di USAid, è tornata ad illustrare la vera questione: i curdi vogliono una Siria decentralizzata, e che quindi riconosca ai curdi quanta più autonomia sia possibile. Altre minoranze convengono per i loro problemi, o interessi. In Siria questa intervista è stata interpretata come una richiesta di aiuto ad Israele, nei confronti di Washington, visto che la linea di Israele è vicina alla sua visione. Ma l’inviato della Casa Bianca in Siria (e in Turchia), Tom Barrack, amico personale del presidente Trump, ha subito risposto che la parcellizzazione non funziona, ha fallito e seguiterà a fallire, come sta accadendo da anni in Iraq; per lui al Medio Oriente servono Stati coesi per fronteggiare le sfide che hanno davanti. Ed è rilevante che abbia colto l’occasione per apprezzare i contemporanei sforzi del Libano per disarmare con efficacia Hezbollah.
Trump dimostra ancora in queste ore di voler puntare ancora di al-Sharaa e sulla stabilizzazione di tutta la Siria, tanto che alcuni fonti riferiscono alla stampa specializzata che per Washington sarebbe chiaro che sono i curdi a dover fare concessioni a Damasco, non il contrario. I curdi hanno un quasi-stato, un esercito molto armato e numeroso, e su questo si capisce che la posizione di Washington ha logica. Ma Damasco non mostra disponibilità al compromesso, rifiuta il decentramento amministrativo e le intese trovate negli ultimi mesi sui possibili assetti militari hanno bisogno di un’intesa anche sulla struttura dello Stato per divenire realtà. Come di una concessione ne richiede contestualmente un’altra dall’altra parte.