Dall’Olocausto al genocidio palestinese: il trauma che non conosce confini
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Dall’Olocausto al genocidio palestinese: il trauma che non conosce confini

Risulta difficile sostenere una distinzione netta tra le vittime di crimini di guerra, poiché la natura biologica sembra reagire a eventi traumatici estremi con un meccanismo di adattamento evolutivoBiologia

Dall’Olocausto al genocidio palestinese: il trauma che non conosce confini
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11 Luglio 2025 - 15.39


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di Gabriele Simonelli

Elie Wiesel definì l’Olocausto come il “riassunto dell’esperienza ebraica”, un evento “irrazionale e unico: un capitolo glorioso della eterna storia degli ebrei”. Il dibattito sull’unicità dello sterminio del popolo ebraico ha attraversato e modellato profondamente il pensiero storico, filosofico e politico del Novecento. Per la prima volta nella storia dell’umanità, la persecuzione sistematica e tecnologicamente organizzata di un intero popolo ha occupato in modo pervasivo la sfera pubblica, ridefinendo i concetti di male, responsabilità e giustizia, e imponendo nuove categorie morali e giuridiche a livello globale.

A differenza di Wiesel, Raphael Lemkin – giurista ebreo polacco e coniatore del termine genocidio – sosteneva la comparabilità fra genocidi. Prima ancora di perdere la famiglia durante la Seconda guerra mondiale, aveva studiato il caso del genocidio armeno e ne aveva compreso le implicazioni storiche e morali. Non a caso Hitler, alla vigilia della “soluzione finale”, domandava retoricamente ai suoi ufficiali: “Chi si ricorda oggi dello sterminio degli Armeni?”. Anche dopo l’esperienza del processo di Norimberga, Lemkin mantenne la convinzione che i genocidi potessero e dovessero essere analizzati in prospettiva comparata.

Primo Levi, inizialmente vicino alla posizione di Wiesel – “Non si può spiegare perché, nella tragedia e nel caos della guerra ormai perduta, i convogli dei deportati avessero la precedenza sui trasporti di truppe e munizioni” – iniziò a rivedere il proprio orientamento a partire dai massacri in Cambogia, ipotizzando che, almeno fuori dall’Europa, si potessero verificare eventi affini all’Olocausto. Non visse abbastanza per assistere al ritorno della pulizia etnica nel continente europeo negli anni Novanta.

Se da un lato la rivendicazione dell’unicità ha avuto una funzione cruciale nella costruzione del diritto internazionale e nel consolidamento del rifiuto collettivo della barbarie nazifascista, dall’altro, con il passare dei decenni, essa ha rischiato di cristallizzarsi in una narrazione esclusiva e gerarchica del dolore. Una narrazione che, se non interrogata criticamente, può produrre sacche di invisibilità, ostacolando il riconoscimento di altri traumi storici e favorendo forme di selettività nel discorso pubblico, in cui solo alcuni soggetti e alcune memorie trovano ascolto e legittimità.

La comparabilità tra genocidi è uno di quei temi in cui le dimensioni soggettive e collettive si intrecciano in modo inestricabile, e dove risulta pressoché impossibile distinguere nettamente ciò che appartiene alla razionalità analitica da ciò che è invece frutto dell’esperienza vissuta. È impossibile, infatti, separare l’evento storico dalla narrazione che lo costituisce e lo tramanda. Il trauma – e lo sterminio di un popolo ne rappresenta la forma più estrema – non può essere affrontato in modo riduttivo o univoco. Esso implica una dimensione affettiva, ossia la soggettività del vissuto, ma anche una dimensione relazionale e discorsiva: come le società elaborano pubblicamente tali esperienze, come le organizzano simbolicamente, e in che modo costruiscono lo spazio di riconoscimento per vittime, sopravvissuti e carnefici.

Esiste però una prospettiva in cui il carico culturale e politico del genocidio sfuma, in cui il dibattito pubblico si attenua, e le passioni cedono il passo a una riflessività di ordine biologico e scientifico. Da alcuni decenni, infatti, si è aperta nel mondo accademico una nuova linea di ricerca che indaga l’ereditarietà epigenetica transgenerazionale: un campo ancora di nicchia, ma in rapida espansione, che ha il potenziale di ridefinire il nostro modo di comprendere la memoria del trauma.

Per introdurre il concetto in termini semplici: immaginate che il DNA rappresenti il vostro hardware, mentre le esperienze di vita che vi plasmano costituiscono il software. La biologia classica, in una prospettiva essenzialmente riduzionista, ci ha insegnato che l’hardware viene ereditato, ma che il software dei genitori viene “resettato” prima della nascita della prole. In altre parole, la natura sembrerebbe attuare una doppia “formattazione” dei marcatori epigenetici (ossia il software) durante la formazione delle cellule germinali e nel processo di sviluppo embrionale, per evitare che l’ambiente e le scelte di una generazione ricadano automaticamente su quella successiva.

Questa visione, rassicurante nella sua linearità, sostiene implicitamente l’idea che ogni nuova generazione abbia la possibilità di iniziare da zero, libera dal peso degli errori e dei traumi dei propri predecessori. Ma è davvero così? Negli ultimi decenni la risposta sembra orientarsi per il no.

Gli studi condotti su organismi modello — come topi, moscerini della frutta, mais e altri — hanno fornito prove convincenti che talvolta il “software” epigenetico sfugge alla formattazione prevista, e che alcune sue caratteristiche possono essere trasmesse alle generazioni successive. Il discorso sugli esseri umani è però molto più complesso, poiché le condizioni sperimentali rigorosamente controllate tipiche degli studi su piante e animali non sono replicabili in ambito umano. Ciò che si può fare, e che è stato effettivamente realizzato, è studiare le cosiddette “coorti storiche”: popolazioni che hanno vissuto particolari eventi traumatici o condizioni ambientali estreme in passato, e i cui discendenti possono essere analizzati per verificarne gli effetti biologici ereditari.

Tra gli eventi storici maggiormente indicativi per questo tipo di indagine, le carestie occupano un ruolo centrale: si tratta di shock collettivi di intensità estrema, in grado di incidere profondamente e in modo duraturo sullo sviluppo biologico e sociale degli individui. L’intensità e l’ampiezza del loro impatto le rendono uno scenario privilegiato per studiare i meccanismi epigenetici in popolazioni umane reali.

Un caso emblematico è la carestia del 1944-45 nei Paesi Bassi occupati dai nazisti, durante la quale fu imposto un razionamento estremamente severo, con una soglia calorica giornaliera di circa 667 kcal pro capite. La precisione burocratica della macchina nazista, che registrava dettagliatamente anche le nascite, ha permesso di raccogliere dati accurati sulle donne che partorirono durante quel periodo. Gli studi hanno evidenziato che i figli di queste donne presentavano segnali epigenetici — ossia modificazioni del “software” — nel gene IGF2 (Insulin-Like Growth Factor 2), un gene coinvolto nella regolazione della crescita umana. Questi individui mostravano inoltre un rischio più elevato di sviluppare coronopatie rispetto alla popolazione generale.

Ma c’è di più: uno studio ha chiamato in causa direttamente l’Olocausto. Un gruppo di ricerca dell’ospedale Mount Sinai di New York si è concentrato sul gene che regola l’espressione della proteina FKBP5, un modulatore chiave della reattività dei recettori per i glucocorticoidi, la cui disregolazione è associata al Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD) e alla depressione maggiore. Il team ha confrontato un gruppo di sopravvissuti all’Olocausto e i loro figli con un gruppo di ebrei che durante la Seconda guerra mondiale vivevano al di fuori dell’Europa e, dunque, erano sfuggiti alle persecuzioni, analizzandone i profili epigenetici.

Anche in questo caso, i sopravvissuti all’Olocausto mostravano segnali epigenetici significativamente diversi rispetto ai controlli, e i loro figli presentavano modificazioni correlate a quelle dei genitori, mentre nei gruppi di controllo non si osservava alcuna correlazione tra genitori e figli.

Questo dato implica, potenzialmente, che oggi un bambino palestinese concepito in un contesto di genocidio, anche se adottato alla nascita da una famiglia multimilionaria che gli garantisse le migliori cure possibili, porterebbe comunque con sé le tracce epigenetiche del trauma vissuto dai suoi genitori, pur non avendo mai sperimentato direttamente il genocidio in corso.

Da questa prospettiva, risulta difficile sostenere una distinzione netta tra le vittime di crimini di guerra, poiché la natura biologica sembra reagire a eventi traumatici estremi con un meccanismo di adattamento evolutivo. Di fronte a uno shock così straordinario come il genocidio, la natura modifica i propri schemi, lasciando che parte dell’esperienza vissuta dai genitori venga trasmessa ai figli, fornendo loro potenziali “armi” per far fronte a condizioni ambientali analoghe.

La natura, in questo senso, appare intelligente e resiliente; siamo invece noi, con le nostre azioni e i nostri traumi, a rompere gli equilibri, costringendo il meccanismo biologico a perpetuare il dolore tra le generazioni.

Quanto duri questo effetto, quanto sia intenso e quali ripercussioni abbia sulla salute e sul benessere delle generazioni successive, sono ancora questioni aperte e oggetto di ricerca. Ciò che sappiamo è che questa trasmissione probabilmente esiste anche negli umani, e anche solo questo dovrebbe indurci a una profonda riflessione come specie.

Nel Novecento si è compiuto un grande sforzo per liberare la storia da pregiudizi razziali basati su false asserzioni genetiche; oggi, al contrario, è il momento in cui le differenze epigenetiche tra gruppi, privilegiati e non,  e condizioni di vita, studiate con rigore empirico, devono entrare nel dibattito sociale, etico, filosofico e politico, contribuendo a una comprensione delle radici profonde del trauma e del genocidio, e in generale a riconoscere le condizioni di partenza diverse che la società impone ai suoi membri.                                      .

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