Grazie di tutto compagna Rossana Rossanda

Per chi come me, alla metà degli anni Settanta, in una Roma segnata da passione e sceglie la militanza politica nel Pdud-Manifesto, Rossana era più di una dirigente. Era un mito.

Rossana Rossanda
Rossana Rossanda
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

20 Settembre 2020 - 10.25


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Altri, più capaci e colti, tratteggeranno di lei un ritratto consono alla sua grandezza, intellettuale ancor prima che politica. Ricorderanno i passaggi più importanti, a tratti avventurosi, di una “ragazza del secolo scorso”. Una ragazza comunista. Rossana Rossanda. Ma per chi come me, alla metà degli anni Settanta, in una Roma segnata dalla passione ideologica e da una violenza quotidiana, sceglie la militanza politica nel Pdud-Manifesto, Rossana era più di una dirigente.

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Era un “mito”. Sì un “mito”.

Non suscitava soggezione politica come un altro grande che non c’è più, Lucio Magri, no, Rossana esercitava una fascinazione intellettuale per la profondità del suo argomentare, per il bagaglio culturale, immenso, che portava con sé, sempre con leggerezza. Noi giovani pduppini ci siamo formati sui suoi scritti, e ricordo, oggi che non c’è più, quando la mattina, giovane liceale, andavo a Largo Goldoni, alla vecchia tipografia de Il Manifesto, per ritirare le copie del giornale da diffondere a scuola.

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La prima cosa che facevamo, non ero il solo, era leggere gli articoli di Rossana e di un altro grandissimo scomparso da tempo, Luigi Pintor. Rossana sapeva ascoltare, e questa non è una dote da poco. Ed era rispettata anche da chi era faceva della radicalizzazione estrema, dell’assoluto ideologico, il suo tratto distintivo. Ricordo un’assemblea che come universitari del Pdud organizzammo ad Architettura, nella mitica Valle Giulia, nel 1977. L’anno del movimento, degli autonomi, della cacciata di Lama dall’Università.

Il clima era pesantissimo, ma assieme a Famiano Crucianelli, allora responsabile nazionale degli studenti del Pdup, decidemmo di organizzare l’iniziativa con Rossana. L’aula magna di Architettura era stracolma, quando fecero irruzione gli autonomi. Di solito, finiva male. Ma quella volta, dopo momenti di contrapposizione, rimasero ad ascoltare quello “scrigno” che parlava di comunismo. Può sembrare strano per chi visse quella stagione, ma ne rimasero affascinati. E chi non lo era di fronte a chi dialogava con i grandi del tempo, come Jean Paul Sartre, che aveva saputo coniugare impegno politico a tempo pieno e una insaziabile curiosità intellettuale. E poi l’assemblea nazionale degli studenti in una Bologna segnata dalla rottura tra il movimento e il Pci, rottura che non culminò in tragedia, nel settembre del ’77, grazie all’intelligenza di uno dei più grandi sindaci che Bologna la rossa ha mai avuto: Renato Zangheri. A concludere quell’assemblea fu lei, perché nessuno come lei sapeva cogliere le ansie, le paure, i sogni, di quella generazione.

Per molti di noi che scelsero di restare nel Pdup, con Lucio, quando si consumò la rottura con Il Manifesto, separarsi da Rossana, da Luigi, da Valentino fu una ferita che il tempo non riuscì a lenire.

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In molti scriveranno di lei, come merita. Ma sono in pochi che l’hanno conosciuta e intellettualmente amata come Aldo Garzia, di cui mi onoro di essere amico da oltre quarant’anni. Aldo scisse un bellissimo articolo per Ytali, la preziosa rivista on line di Guido Moltedo, anche lui uno degli artefici de Il Manifesto di cui fu vice direttore, per il 96mo compleanno di Rossana.

Ne “rubo” alcuni passaggi: “I tanti anni trascorsi con Rossana Rossanda a il Manifesto sono stati di formazione politica, culturale, giornalistica. Ricordo quando nei primi anni Settanta era tale il rispetto per il personaggio che noi ventenni facevamo fatica a rivolgerle la parola. Avevamo letto i suoi saggi (tra cui un’importante intervista a Jean-Paul Sartre), ma il timore di non reggere la conversazione vinceva su ogni altra considerazione. La vedevamo passare in corridoio al quinto piano di via Tomacelli con eleganza insieme a K. S. Karol, il compagno di una vita, e a al di là di un cenno di saluto non riuscivamo ad andare. Ci comportavamo meglio nelle riunioni di redazione, dove i fatti di giornata favorivano l’interlocuzione collettiva. C’è voluto del tempo perché il rapporto tra “giovani” e “vecchi” del giornale si sciogliesse. Personalmente, qualche volta ho dissentito dalle sue posizioni, come è naturale che avvenga per liberarsi via via dei propri maestri, ma con tanti altri ex giovani le debbo molto. L’autorevolezza di Rossana Rossanda ne ha fatto “la signora della sinistra italiana…..La lettura di La ragazza del secolo scorso (2005) di Rossanda è stata poi un’esperienza affascinante. Scrivere di sé ha sempre un obiettivo. Qualche volta serve a fare i conti con se stessi, cercando pausa e meditazione attraverso quella particolare metodologia psicoanalitica che è l’autobiografia. Qualche altra volta darsi in pasto agli altri serve per spiegare (e spiegarsi) ciò che si è stati cercando un dialogo con chi quella vita ha vissuto in parte di riflesso o non ha neppure un appiglio per capirla. Dev’essere questa seconda finalità ad aver spinto Rossanda a raccontarsi con episodi, cronache, pezzi di storia d’Italia e della sinistra, dei comunisti italiani e del movimento comunista internazionale. Infatti, qui è là, spuntano ricorrenti domande rivolte a chi guarda incredulo alle gesta della generazione di Rossanda: “Come far capire che poi il partito fu una marcia in più?”, “Come spiegare che si è stati comunisti e si continua ad esserlo?”. …. La “ragazza del secolo scorso” ha vissuto in seguito tutti gli avvenimenti successivi da protagonista. Lasciò il primo impiego presso un’enciclopedia per dedicarsi al lavoro politico a tempo pieno, inizialmente nella nascente Associazione Italia-Urss (con qualche viaggio a Mosca), poi nella federazione comunista milanese. Di qui lo slancio nella direzione della Casa della cultura di Milano (fucina di formazione, di incontri e di passaggi di molte personalità internazionali), poi i primi articoli per il mensile Rinascita diretto da Palmiro Togliatti. Data spartiacque è il 1962, quando Rossanda venne chiamata a Roma per dirigere la Sezione culturale del Pci e in seguito diventò deputato (1963-1968).

Lucio Magri, Rossana Rossanda, Eliseo Milani, Luciana Castellina

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Rossanda fa parte della generazione del ‘partito nuovo’, quello del dopoguerra, quello che Togliatti (con cui lei discuteva spesso, arrivando la mattina presto nella sede di Botteghe Oscure) seppe costruire ponendo il Pci al centro degli eventi che si sono susseguiti impetuosi uno dietro l’altro: dall’immigrazione verso il nord alle prime avvisaglie del boom economico. Un partito nazionale, che aveva saputo sanare i dissidi dei gruppi dirigenti delle generazioni precedenti. Il Pci era un partito che aveva saputo costruirsi, seppure in modo incompleto, l’autonomia dall’Unione Sovietica. Ma dopo la morte di Togliatti nel 1964 il confronto interno si fece aspro e nell’XI Congresso del Pci nel 1966 si evidenziarono opzioni politico/culturali diverse: la sinistra “ingraiana” fu una di queste. Nel 1969 nacque il mensile il manifesto che venne mal tollerato dal Pci fino a decretare la radiazione dal partito dei suoi promotori: Lucio Magri, Luigi Pintor, Aldo Natoli, Luciana Castellina, Eliseo Milani, Valentino Parlato e tanti altri. La radiazione dal Partito comunista nel 1969 è stata per Rossanda una ferita che non si è mai rimargina. I suoi articoli, libri e saggi su il manifesto ci hanno accompagnato per decenni”.

E’ così, caro Aldo.

Quella di Rossana Rossanda  è stata una  vita di battaglie, quasi tutte eretiche. E’ stata l’unica ad aver convinto il capo delle Brigate Rosse, Mario Moretti, a parlare in un’intervista del caso Moro. Nei giorni della fermezza lei sostenne la tesi della trattativa. Fu allieva dell’economista Antonio Banfi, “il mio maestro”, come lo definiva. Amica di Jean Paul Sartre, aveva vissuto a lungo a Parigi, da dove era tornata due anni fa, stabilendosi a Roma, in una casa nel quartiere Parioli. Una delle sue ultime uscite pubbliche fu l’anno scorso, a maggio, per sostenere alla Casa delle donne alcune candidate della sinistra alle elezioni Europee. “Nel bilancio della sua vita prevalgono più le ragioni o i torti?”, le fu chiesto nell’ultima grande intervista sulla sua vita, concessa a Repubblica , il 31 ottobre 2018. “Ho cercato di fare prevalere le ragioni, ma ho avuto grandi torti, del resto chi può negare di sé di non averne avuti”. E qual è il torto più grande: “Non glielo dico. Lo dico a fatica anche a me stessa”.

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“Perché sei stata comunista? Perché dici di esserlo? Che intendi? Senza un partito, senza cariche, accanto ad un giornale che non è più tuo? E’ un’illusione cui ti aggrappi, per ostinazione, per ossificazione? Ogni tanto qualcuno mi ferma con gentilezza: “Lei è stata un mito!” Ma chi vuol essere un mito? Non io. I miti sono una proiezione altrui, io non c’entro. Mi imbarazza. Non sono onorevolmente inchiodata in una lapide, fuori del mondo e del tempo. Resto alle prese con tutti e due…”. In questa lunga citazione dall’autobiografia di Rossana Rossanda La ragazza del secolo scorso (uscita per Einaudi, nel 2005), c’è tutta lei, una signora della politica italiana, una comunista mai pentita ma sempre critica.

Le analisi di Rossanda: senza veli, senza omissioni, senza ipocrisie. Così in quel famoso articolo sul Manifesto del 1978, in pieno sequestro Moro, che cercava di capire la logica brigatista: “Chiunque sia stato comunista negli anni ‘50 riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l’album di famiglia: ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov di felice memoria” Ne seguirono polemiche feroci, Emanuele Macaluso, dalle colonne dell’Unità, parlò di “confusione e distorsione impressionanti”. Ma aveva colto nel segno, Rossana, anche se quel segno era ingombrante per chi continuava a parlare e scrivere di “fascismo rosso”.

Come colse nel segno quando, ricordo uno straordinario convegno organizzato a Venezia dal Pdup-Manifesto, sottopose a critica, da sinistra, il “socialismo reale”, che altro non era che un “capitalismo di Stato” ammantato di una ideologia che nella realtà veniva negata. Nel 1968 condannò duramente l’invasione della Cecoslovacchia da parte dei Paesi del Patto di Varsavia, in aperto contrasto con le posizioni del partito. Per questo, durante il Congresso nazionale del 1969, Rossanda e tutta la corrente del Manifesto furono radiati dal Pci. Ma quello dei carri armati non era comunismo, non era il “suo” comunismo. Che era un comunismo libertario, gramsciano, vicino al pensiero di un’altra grande donna, comunista e libertaria, Rosa Luxemburg.

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Fino all’ultimo ha mantenuto il desiderio di leggere, più grande dell’ormai sopito desiderio di vivere.  “Mi dispiacerebbe morire per i libri che non ho letto e i luoghi che non avrò visitato ma confesso che non ho più nessun attaccamento alla vita”, concluse così la sua intervista a Repubblica.

Che la terra ti sia lieve, compagna Rossanda.

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