Lele Mora: ad Arcore immoralità e squallore
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Lele Mora: ad Arcore immoralità e squallore

L'ex manager ricorre in appello contro la condanna di 7 anni in primo grado. Ma alcuni passaggi del ricorso hanno del clamoroso.

Lele Mora: ad Arcore immoralità e squallore
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14 Gennaio 2014 - 11.52


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Dopo Emilio Fede, anche l’ex manager dei vip, Lele Mora, ricorre in Appello per il caso Ruby attraverso un atto, firmato dagli avvocati Maris e Avanzi, che porta sui banchi dei giudici nuovi elementi che hanno del clamoroso. Le serate nella villa di Arcore di Silvio Berlusconi, si legge, potevano «presentare numerosi aspetti di immoralità e squallore» ma erano solo «la base e l’occasione di tutta una fase di conoscenza reciproca e di creazione di vincoli di simpatia o empatia fra le parti in gioco». Un passaggio che ricalca, tra l’altro, quanto aveva già sostenuto Mora in sede di dichiarazioni spontanee nel corso del processo.

Mora chiede ai giudici d’appello di assolverlo dai reati di induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile per il caso Ruby, per cui è stato condannato a 7 anni.

La stessa pena è stata inflitta all’ex direttore del Tg4, Emilio Fede, mentre Nicole Minetti è stata condannata a 5 anni. Anche Fede è stato condannato per il reato di induzione e favoreggiamento alla prostituzione delle ragazze e assolto invece dall’induzione alla prostituzione minorile cioè di Ruby. Come ha fatto sapere lo stesso Fede in una nota, nelle circa 300 pagine di motivi d’appello, si sostiene la sua totale “estraneità ai fatti” e si chiede la piena assoluzione.

Nell’atto di Mora, inoltre, la richiesta di «concedere», in caso di condanna, «le attenuanti generiche nella massima ampiezza» e di applicare la «continuazione» tra i reati a lui imputati per il caso Ruby e il patteggiamento a oltre 4 anni per la bancarotta della sua Lm Management.

I legali di Mora ne chiedono l’assoluzione – I legali dell’ex talent scout dei vip, nell’atto di impugnazione di 39 pagine depositato ieri nella cancelleria della Corte d’Appello di Milano, chiedono in prima battuta ai giudici di «dichiarare la propria incompetenza ed ordinare la trasmissione degli atti al giudice di primo grado competente, individuato nel Tribunale di Monza».

Nel merito, invece, la difesa chiede l’assoluzione «perchè il fatto non sussiste o non costituisce reato». Secondo i difensori, infatti, la «nozione tecnico giuridica di prostituzione (…) non può ricomprendere i rapporti sessuali inseriti in una relazione personale specifica».

L’attività di talent scout di Mora, secondo la difesa, riguardava certamente anche «l’occasione utile per le ambizioni, coltivate dalle sue clienti nel mondo dello spettacolo e della televisione, e fra queste, forse la più grande, è certamente quella di conoscere Silvio Berlusconi, di essere invitati ad una delle sue cene, di entrare in quel giro di favoriti». Tuttavia, tutto quello che succedeva «dopo» tra l’ex premier e le ragazze, «il modo di offrirsi e di legarsi, di vivere l’occasione sono del tutto sganciati dall’elemento volitivo riguardante tale imputato».

Berlusconi infatti, «giova ricordarlo, in quanto la sentenza pare averlo dimenticato, era, oltre che premier, il proprietario delle principali reti televisive e cinematografiche italiane». Tra l’altro, secondo la difesa, «approfondimenti e chiarimenti proverebbero, come è logico, che quel sistema prostitutivo di cui ci parla il Pm fosse già sussistente prima dei fatti in esame, come ugualmente già vi fossero analoghe feste presso le residenze dell’On. Berlusconi, ce lo dicono molte testi, lo disse la moglie dello stesso Berlusconi e lo hanno supposto altri procedimenti penali».

E allora, proseguono i legali, «oggi come ieri si può dire che Mora non è mai stato uno degli attori nè uno dei protagonisti di detto sistema». In subordine, la difesa chiede che l’accusa di induzione e favoreggiamento della prostituzione della minorenne Ruby venga riqualificata in «favoreggiamento personale ex art. 378 c.p., per avere in concreto aiutato il coimputato, l’On. Berlusconi, dopo che fu commesso il reato in esame, ad eludere le investigazioni della Autorità».

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