Una sarda di adozione racconta il suo Veneto 'fatto dai migranti'
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Una sarda di adozione racconta il suo Veneto 'fatto dai migranti'

Come è cambiato il Veneto nei decenni, che è cresciuto grazie alle braccia dei migranti, che oggi respinge.

Una sarda di adozione racconta il suo Veneto 'fatto dai migranti'
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21 Giugno 2015 - 11.22


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di Mizha Panontin

Vengo dal Veneto, da una pianura che d’inverno è spesso nebbia e d’estate afa. Vengo da una terra che era palude ed è diventata industria, operosa e operaia a turni e sudore e biciclette e cartellino la mattina e la sera.

Lievito di fabbriche, pancia di tir che incessanti solcano sempre più autostrade, e sempre più asfalto che riga la terra e sempre più villette con giardini curati e prato verde. Le viti amare diventate enormi botti d’acciaio, distese di mais, papaveri e cimici. Poi qualcosa si è inceppato, i vialetti di ingresso di ghiaia sono rimasti perfetti, le fabbriche hanno iniziato a sputare veleni e i colori son diventati tutti grigi. Di fronte a casa di mia nonna, la sera, si sente un rumore di fondo, che sembra quasi un incessante ringhio, copre le rane che parlano tra loro e ti distrae dalle stelle. E non ci sono più le lucciole.

La fabbrica ha inghiottito tutto, chilometri di uomini e secchi di spritz , a dimenticar fatiche.

Si assume, non c’è più gente che voglia rompersi la schiena e i polmoni e il fegato sotto le presse, sopra le antine in mdf, a fianco di imballaggi scoppiettanti. Arrivano a vagoni, prima erano solo i marocchini con l’immancabile tappeto e la faccia baffuta, ora le sfumature son tante, Sud America, Africa, Jugoslavia, Est Europa. Ma gli Albanesi sbarcano con le navi che sputano dalla pancia queste persone ossute, stanche di sognare a vuoto. Ma loro no, non sono arrivati sommessi e silenziosi. Li abbiamo visti tutti ,disperati, in fotografia, in tv, stivati come polli in una gabbia troppo angusta.

E il veneto si accorge che gli immigrati ci sono. Prima non li vedeva nessuno, erano solo utili. Vai in fabbrica, timbra, lavora tutto quello che i ragazzi non vogliono più, non sia mai che una sera non ci si possa ubriacare nei bar che si moltiplicano più dei conigli.
E quando arrivano gli albanesi tutto cambia.

Improvvisamente la gente usa parole nuove. Ladri, violenti, poco di buono.
C’è ancora bisogno di braccia, quindi questo parlare serpeggia nei bar, nelle piazze sottovoce, si evitano certi posti, si ha paura e non si chiede nemmeno il nome, ma si sopporta. Si chiudono le porte a chiave. Tutto è cambiato, ma servono braccia. Arrivano I Mussulmani. Sono tanti, aprono macellerie che rispettino la macellazione del loro credo, penso andrebbe bene anche agli ebrei, come metodo. Naturalmente si mormora. Questi non hanno la faccia cattiva, hanno la barba, come oggi è di moda tra i giovani chic . Ma le donne portano un fazzoletto in testa, e questo non va bene. Mai incontrata una col burka. Bambini a scuola coi bambini veneti. Accenti trevigiani su pelle ambrata. Quale spettacolo meraviglioso. Servono braccia e non si dice nulla, si mormora.
Che? Anche la macelleria? Ma ci rubano il lavoro. E poi non hanno muset e cotechino.

Infine arrivano i cinesi. Ma non c’è più così bisogno di braccia ed i negozi dei veneti languono e si addormentano nelle piazze, poi chiudono, ad uno ad uno. Solo i cinesi aprono. Quindi è colpa loro.

Si apre uno squarcio là dov’era solo sfilata la calza. Le persone si accorgono che il rumore dei tir prosegue oltre al paesino, e non si ferma, va a raggiungere l’est meno caro, le fabbriche ci sono ancora, hanno solo camminato in un veneto primordiale, affamato, forse un po’ albanese.
Quindi?

Quindi ora non si ha fame di braccia, ma di pane. Mi sembra ovvio che tutto esploda. I Rom ci sono sempre stati, in Veneto, venivano dal Montenegro, dall’Asia. Sono stati i primi. Forse io discendo da loro.
Quindi iniziamo ad odiare ad alta voce e furiosamente loro, che hanno aperto la strada. Dai.

I nostri giardini sono perfetti, ghiaino e prato verde.

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