Il diritto al cognome della madre: oggi la sentenza della Consulta
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Il diritto al cognome della madre: oggi la sentenza della Consulta

La legge dorme in Parlamento ma le richieste sono in aumento: oltre 10 mila italiani vogliono quello materno.

Madre con i figli
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8 Novembre 2016 - 11.51


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Una sentenza che può decretare la fine del patriarcato, quello tradizionale e dato per scontato. Quello tramandato nei cognomi. Perchè la lotta per i diritti delle donne (e non solo) passa anche per i simboli. Da abbattere. E per le conquiste da issare come vessilli. Già il 24 settembre 2014 l’Italia brindò con 239 voti favorevoli, 92 contrari e 69 astenuti quando la Camera approvò la proposta di legge che aboliva l’obbligo del cognome paterno per i figli, lasciando sul tema libertà di scelta ai genitori. Da quel giorno sono passati oltre due anni. Poco o nulla è cambiato. Perchè la legge giace ancora tra i faldoni del Parlamento. Dimenticata.

Questo, nonostamnte la tirata d’orecchie della Corte di Strasburgo all’Italia. Secondo la Corte europea infatti i genitori devono avere il diritto di dare ai figli il solo cognome della madre. Lo ha stabilito  nel lontano gennaio 2014 e ha condannato l’Italia per aver violato i diritti di una coppia di coniugi avendogli negato la possibilità di attribuire alla figlia il cognome della madre invece di quello del padre.

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La parola passa così alla Corte Costituzionale, che oggi dovrà pronunciarsi sul ricorso presentato dalla Corte d’Appello di Genova per il caso di una coppia che si è vista negare la possibilità di attribuire al figlio entrambi i cognomi dei genitori. Il giudice ha ritenuto che la disciplina vigente, con l’imposizione del cognome del padre, violi i principi di parità e uguaglianza sanciti dalla Costituzione.  

Non è la prima volta che la Consulta è chiamata a esprimersi sul tema. Nel 2006 dichiarò un ricorso analogo “inammissibile” poiché la decisione “compete esclusivamente al legislatore”, ma ammoniva il Parlamento a dotarsi di una disciplina adeguata ai tempi, tenuto conto che “l’attuale sistema è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna”. 

Cosa ne è stato della legge? Accumula polvere nei cassetti della Commissione giustizia al Senato in attesa di proseguire l’iter per l’approvazione.

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Ma quante sono le persone in Italia che si sottopongono a questo iter? PNon esistono statistiche ufficiali, ma il quotidiano La Stampa ha inviato una richiesta a tutte le Prefetture (106 in tutto), ottenendo risposta da 34 uffici, che coprono oltre il 40% della popolazione totale. Come spiega la giornalista Lidia Catalano è “un dato certamente parziale, ma che consente di fare luce su un fenomeno che sta prendendo piede e aumenta a ritmi costanti”. E continua: “Delle circa 10.800 richieste di cambio cognome totali pervenute dal luglio 2012 (anno in cui il servizio è stato decentrato dal Ministero dell’Interno alle Prefetture) alle 34 sedi che hanno partecipato all’indagine, ben 5.100 riguardano l’aggiunta del cognome materno.

I dati: se la società corre più della politica. Come prevedibile Roma, con 2440 richieste di aggiunta cognome sulle 3300 richieste totali fa la parte del leone. Ma a stupire di più è l’incremento annuale: i 410 fascicoli trattati nel 2012, sono diventati 510 nel 2015 e a ottobre 2016, ad anno non ancora concluso, sono saliti a 600. “La motivazione principale – spiega la dirigente Sabrina Oricchio – è da ricercare nelle esigenze identitarie riconducibili ad entrambe le figure genitoriali, oltre che ad un rapporto affettivo con i nonni materni”.  

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“Sono dati che raccontano una società che, come sempre accade, si muove più rapidamente della politica”, commenta la sociologa Manuela Naldini, esperta in cambiamenti familiari e studi di genere. “I nuclei familiari in Italia sono sempre più spesso composti da figli unici, e in molti casi l’aggiunta del cognome della madre è l’unico modo per tramandare un patrimonio simbolico e affettivo che altrimenti andrebbe perduto. Questa materia – conclude Naldini – resta l’unica nella quale in Italia viene perpetrata una discriminazione che nel resto d’Europa è sanata da tempo”. 

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