Con una sentenza che segna un passaggio cruciale sul piano giuridico e sociale, la Corte costituzionale ha stabilito l’incostituzionalità del divieto imposto alla madre intenzionale – cioè non biologica – di riconoscere come proprio un figlio nato in Italia in seguito a procreazione medicalmente assistita (Pma) praticata legittimamente all’estero.
La legge 40 del 2004, che disciplina la procreazione medicalmente assistita (PMA) in Italia, è stata oggetto di numerose critiche e interventi della Corte Costituzionale, che ne ha dichiarato l’incostituzionalità in diverse parti. Tra le disposizioni contestate vi sono il divieto di fecondazione eterologa, il limite di impianto di tre embrioni e il divieto di diagnosi genetica preimpianto .
Il governo guidato da Giorgia Meloni ha sostenuto e promosso modifiche alla legge 40, in particolare attraverso l’approvazione del disegno di legge n. 824, noto come “ddl Varchi”, che estende il divieto di maternità surrogata anche ai cittadini italiani che ricorrono a tale pratica all’estero . Questa posizione ha suscitato ulteriori dibattiti e critiche, soprattutto da parte di associazioni e gruppi che si battono per i diritti delle famiglie omogenitoriali e per una maggiore libertà nelle scelte riproduttive .
Pertanto, la decisione della Corte Costituzionale di dichiarare incostituzionali alcune modifiche alla legge 40 rappresenta un significativo intervento che mette in discussione le recenti iniziative legislative sostenute dall’attuale governo.
La Consulta ha depositato la sentenza n. 68 del 2025, nella quale afferma che l’articolo 8 della legge 40 è «costituzionalmente illegittimo» nella parte in cui non consente che anche la madre intenzionale – quella che ha espresso consenso consapevole alla procedura all’estero – sia riconosciuta come genitore del nato, al pari della madre biologica. Il caso era stato sollevato dal Tribunale di Lucca, e la Corte ha accolto le questioni di legittimità costituzionale sottolineando la violazione di numerosi articoli della Carta, in particolare:
- Articolo 2, per il mancato riconoscimento dell’identità personale del minore e del diritto a uno stato giuridico stabile sin dalla nascita;
- Articolo 3, per l’irragionevolezza della norma che esclude il riconoscimento della madre intenzionale senza una valida giustificazione costituzionale;
- Articolo 30, per la lesione dei diritti del figlio a vedere riconosciuta la piena responsabilità genitoriale di entrambi i genitori.
Nelle parole della Corte, «il mancato riconoscimento fin dalla nascita dello stato di figlio di entrambi i genitori lede il diritto all’identità personale del minore» e compromette il pieno esercizio dei suoi diritti, compreso quello di «mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi».
Secondo i giudici costituzionali, due sono i fondamenti della pronuncia: da un lato, la responsabilità condivisa tra i membri della coppia che decidono insieme di ricorrere alla Pma; dall’altro, l’interesse del minore, che deve poter contare sul riconoscimento legale di entrambe le figure genitoriali coinvolte nel progetto procreativo.
Questa decisione rappresenta, nei fatti, una correzione sostanziale a una normativa fortemente voluta da governi di orientamento conservatore e confermata anche nella legislatura in corso, nella quale l’esecutivo ha mantenuto una linea restrittiva sul tema dei diritti legati alla genitorialità omogenitoriale.
La posizione della Corte sulla Pma per single
Nella sentenza n. 69, la Corte ha invece dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sull’articolo 5 della legge 40, nella parte in cui vieta l’accesso alla Pma alle donne single. La Consulta ha chiarito che questa scelta legislativa, pur comprimendo l’autodeterminazione individuale, non è «manifestamente irragionevole e sproporzionata», considerando le delicate implicazioni bioetiche e sociali che il tema comporta.
Tuttavia, ha precisato che «il legislatore può estendere la Pma a single», ribadendo che non esistono ostacoli costituzionali a un futuro ampliamento dell’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita a nuclei familiari diversi da quelli oggi previsti, compresa la famiglia monoparentale.
Pur senza contrapporsi frontalmente alle scelte normative del governo attuale, le due sentenze rappresentano un invito esplicito alla politica a rivedere, in chiave costituzionalmente orientata, l’impianto legislativo in materia di filiazione, genitorialità e accesso alle tecniche riproduttive. La Corte non si pronuncia sui criteri di accesso alla Pma in Italia, ma riconosce la piena validità dei percorsi intrapresi all’estero da coppie italiane, sancendo con forza il primato dell’interesse del minore e l’urgenza di un quadro giuridico che rifletta la realtà delle famiglie contemporanee.