di Dario Spagnuolo
La storia di Martina Carbonaro è una ferita aperta troppo dolorosa per fermarsi sui personaggi. L’adolescente appena quattordicenne uccisa il 26 maggio dal fidanzato diciottenne ad Afragola, hinterland di Napoli, è espressione di un fenomeno complesso che riguarda le relazioni di genere, la condizione delle periferie, l’adolescenza e la crisi educativa.
Davanti ad una morte così assurda bisogna fermarsi e chiedersi se la società italiana non stia sbagliando qualcosa.
La nostra società è violenta, forse come mai prima. Non ci si combatte nelle arene, ma dovunque: sono frasi, liti continue spacciate per spettacolo, una continua esibizione di aggressività fisica e verbale a rendere sempre più labile l’idea di convivenza civile. Esiste poi una sterminata filmografia il cui messaggio è sempre identico: sfoga la rabbia, vendicati, ammazza nel modo più doloroso e spettacolare possibile. E’ un gioco a rimpiattino in cui realtà e fiction si alimentano vicendevolmente.
Non ci si interroga sulle cause del male. Si crede, come nei più banali film d’azione, che solo la violenza possa combattere la violenza. La corsa al riarmo, il moltiplicarsi dei conflitti, sono la conseguenza di questo modo di comportarsi. Le macerie, il dolore, i rancori, i lutti che tutto questo comporta sono considerati accettabili, senza nemmeno rendersi conto che sono destinati a durare a lungo e ad alimentare altra violenza. Sfogare un attimo di rabbia non vale una vita di rimpianti e di dolore.
Quello di Martina Carbonaro è l’ennesimo femminicidio. Ancora una volta un uomo uccide una donna per affermare la propria supremazia: una donna non può dire di NO.
È questo il succo del patriarcato. Una relazione in cui si chiama “amore” il suo esatto opposto: possedere l’altro privandolo della libertà.
Il tutto nasce da una violenza quotidiana vissuta come normalità all’interno delle famiglie. Nel mio lavoro ho incontrato diversi bambini (10 anni o meno) che si rivolgevano alle compagne con espressioni violente e sessiste, spesso senza comprenderne il significato. Non basta un po’ di educazione fatta a scuola quando l’esempio a casa è esattamente l’opposto.
Qualcuno mi ha obiettato che il patriarcato non c’entra nulla, che è successo anche tra due donne che avevano una relazione: Ilaria Capezzuto e Daniela Strazzullo. È accaduto ancora in provincia di Napoli, il 21 maggio 2025 Ilaria Capezzuto ha sparato a Daniela Strazzullo, sua ex compagna prima di suicidarsi. Eppure, proprio questa tragedia dimostra quanto la mentalità patriarcale sia radicata, tale da indurre a recitare ruoli indipendentemente dall’orientamento sessuale.
In un paese sano, a condurre la battaglia per conquistare gradi di libertà sempre più elevati sono la scuola e il mondo della cultura. In Italia, la scuola e il mondo della cultura sono ridotti all’angolo, etichettati come orpelli inutili e astrusi, al rimorchio di ragionamenti fatti con la pancia, buoni per attirare il consenso delle masse ma inefficaci e dannosi. Oggi, se si vuole parlare di educazione alla sessualità, bisogna chiedere l’autorizzazione ai genitori. Genitori che per l’ideologia dominante sono divinità infallibili, mentre nella pratica sono nella maggioranza dei casi coppie divise, con problemi di relazione e difficoltà nello sbarcare il lunario. La metà dei matrimoni termina con il divorzio, ma il moltiplicarsi delle unioni di fatto rende impossibile sapere quante siano realmente le famiglie che si sfasciano, di sicuro sono ben oltre la metà di quelle totali.
In questa situazione, è ovvio che la condizione dell’adolescenza sia banalizzata, ridotta a qualcosa di controllabile con qualche divieto e qualche sanzione: niente telefonini, voto di condotta e così via. Soprattutto il mondo della scuola, in questo modo, diviene sempre più esposto alla contaminazione della banalità.
Apparire conta molto di più dell’essere. Non importa sapere cosa pensi, importa solo che anche l’altro sia un oggetto funzionale all’appagamento dei miei sensi. Così, l’immagine femminile è svilita: labbra carnose, petto prosperoso, unghie da pantera e tutti i possibili ritocchi e ritocchini pur di comunicare la propria femminilità. Una femminilità priva di dolcezza, sensibilità, intelligenza, cura, altruismo.
L’immagine dell’uomo invece è forza, muscoli, aggressività. Il tutto condito da una ricerca continua di appartenenza che trova espressione in tatuaggi che rappresentano solo epidermicamente identità in cerca di riconoscimento. E’ il desiderio di raccontarsi, ma poiché nessuno ascolta allora è meglio farlo per immagini. Quasi sempre, però, i tatuaggi rivelano come soprattutto tra gli adolescenti l’identità resti un universo inesplorato. Molti tatuaggi raccontano amori creduti eterni, passioni calcistiche, stati d’animo dolorosi ma comunque destinati a passare. Altri esaltano la forza e lo scontro fisico, fingono l’appartenenza a tribù e clan.
Sono nella maggior parte dei casi tentativi di definire e immortalare il proprio modo di essere, di rispondere in maniera definitiva alla domanda “chi sono io?” Senza rendersi conto che la risposta è destinata a cambiare con il succedersi degli anni e delle esperienze. In un mondo confuso, insomma, si vendono identità posticce e a buon mercato e spesso sono proprio gli adolescenti ad acquistarle, nel tentativo di sentirsi definiti.
È il desiderio di essere ascoltati, di avere qualcosa da dire quando è difficile spiegare il groviglio di sentimenti e sensazioni che si vive quotidianamente.
Amore e fidanzamenti, in questo contesto, diventano un modo per essere facilmente definiti. Ci si fidanza e, anche molto giovani, subito la notizia è comunicata ai genitori. Così ci si frequenta e si frequentano le rispettive famiglie. Poco conta che si sia alle prime esperienze, che si abbia un’idea molto vaga delle relazioni e della vita di coppia. Gli adulti sono pronti a incoraggiare questi legami credendo che rappresentino una fase di passaggio per superare con successo l’adolescenza. Così padri e madri ammiccano compiaciuti a queste relazioni, ne colgono solo le manifestazioni più simili alle dinamiche della vita adulta, trascurando completamente tutti i segnali di pericolo.
Quello di Marina Carbonaro è il 38° femminicidio dall’inizio dell’anno. Come possiamo credere che relazioni che gli adulti non riescono a gestire, possano invece essere vissute serenamente da adolescenti?
Certo esiste l’innamoramento, succede di infatuarsi. Ma sono situazioni che dovrebbero trovare un equilibrio nell’intervento di adulti responsabili, non compiacenti. Può accadere che una storia d’amore inizi da adolescenti e duri per sempre, ma perché accada c’è bisogno di consapevolezza, capacità di accettare l’altro e di rispettarne le scelte. Per accettare le scelte dell’altro, poi, bisogna sapersi interrogare, mettersi in discussione. Ma il mondo attuale sembra solo confuso e privo di profondità, un susseguirsi di immagini che quasi mai rispecchiano delle anime.
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