Risvegliamo la Resistenza: giovani contro l’indifferenza
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Risvegliamo la Resistenza: giovani contro l’indifferenza

Questa è una domanda complessa, alla quale non si può rispondere raccontando favole. Una domanda così impone onestà. Ho pensato molto al concetto di Resistenza

Risvegliamo la Resistenza: giovani contro l’indifferenza
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8 Giugno 2025 - 20.56


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Il testo della diciassettenne Laura Pietrolucci lo scorso 2 giugno 2025, è risultato vincitore del I concorso nazionale letterario e grafico “La Resistenza per un giovane”. La cerimonia di premiazione si è svolta a Castelnuovo al Volturno (Isernia).

di Laura Pietrolucci.

Cos’è la Resistenza per un giovane?

Questa è una domanda complessa, alla quale non si può rispondere raccontando favole. Una domanda così impone onestà. Ho pensato molto al concetto di Resistenza, a cosa possa significare per un giovane, oggi, in Italia. Stavo per scrivere il solito discorso: il sacrificio dei partigiani, la gratitudine per la pace e la democrazia conquistate, l’importanza della memoria e della storia. Tutte considerazioni giustissime, eppure a pensarci bene, mi sembrava di mentire. Sarebbe stato comodo, magari anche bello. Ma sarebbe stato ipocrita.

Perché, in effetti, cosa sa davvero un giovane oggi della Resistenza? Non molto, questa è la verità. E quel poco che viene spiegato e raccontato lo si vive come una favola, un mito, non troppo diverso dalla guerra di Troia o dall’odissea di Ulisse: qualcosa di eroico sì, ma morto e lontano, inafferrabile. È diventata una parola vuota, sventolata come una bandiera consumata, solo per dire “noi ci siamo”. Poi appena finisce il discorso, quella bandiera viene riposta e nessuno si fa più domande. È l’ipocrisia del nostro tempo: parlare di Resistenza per restare tranquilli, senza farne mai qualcosa che bruci davvero. E il peggio è che ci crediamo anche, ci convinciamo che quella bandiera logora basti a farci sentire giusti.

La Resistenza, quella vera, l’abbiamo tradita. L’abbiamo chiusa nei musei e nei libri di scuola, svuotata del suo sangue, del suo dolore, della sua fame di giustizia. E intanto, fuori dai musei, dalle aule, c’è ancora chi tace all’ingiustizia, chi preferisce non vedere. Nelle scuole la Resistenza esiste, sì. Ma come fossile. Te la fanno studiare in fondo al libro, tra la noia e la fretta di chi deve finire il programma. Te la raccontano con la voce bassa, come se potesse offendere qualcuno. “Non bisogna parlare di politica in classe”, dicono. Come se scegliere la libertà invece della dittatura non fosse una scelta politica. Come se morire per la dignità del tuo Paese fosse una questione neutra. E allora si ripete il rituale: due parole sulla Liberazione, tre nomi di partigiani, applausi, silenzio. E il giorno dopo, tutto dimenticato. Come se fosse stato un sogno, una bugia. Per loro discutere di tutto questo sarebbe un errore imperdonabile. E ancora più imperdonabile sarebbe parlare tuttora di storie vecchie, di un passato morto, di uomini e donne così diversi da noi. Peccato però che, citando William Faulkner, “Il passato non è mai morto e non è neanche passato” cambia forma, cambia nome ma non muore mai. E poi, davvero ci crediamo così diversi dagli uomini e le donne passati? Forse è proprio questo il problema: percepiamo questi 80 anni di distanza storica come un baratro così largo e infossato che solo a sporgerci un po’ verso di esso ci vengono le vertigini. Guardiamo quel passato come si guarda un gioco di specchi deformanti, che più siamo vicini più ci fa vedere distanti e ci fa sembrare così diversi. Uno con la testa gigante, l’altro con le gambe minuscole, coi corpi uno allungato e l’altro arrotondato. E ridiamo, sentendoci tanto diversi e ci illudiamo che tutto ciò non ci riguardi affatto.

Ma la verità è che abbiamo paura della Resistenza. Paura della sua rabbia, della sua verità. Perché la Resistenza, quella vera, era disobbedienza, era rottura, era caos. Era gente che infrangeva le regole, che squarciava il silenzio. Non la si può addomesticare, costringerla in una frase fatta. E allora la si sterilizza. Così la rendiamo inoffensiva. Così la tradiamo.

Chi erano quindi, questi partigiani?

Molti di loro erano ragazzi proprio come noi che, dopo l’8 settembre 1943, si sono ritrovati di fronte ad una scelta difficile: essere soldatini di una dittatura e andare ed eseguire ordini di morte, oppure combattere per la libertà del proprio Paese a costo di essere arrestati, torturati, fucilati. I partigiani scelsero la seconda strada. Non per eroismo, non per gloria, ma per dignità. Fu una scelta di coraggio ma soprattutto di sacrificio. Sacrificarono la propria gioventù, alcuni la propria vita per la patria, una patria giusta dove ognuno potesse essere un cittadino libero. Non dobbiamo però credere che queste persone fossero cavalieri senza macchia e senza paura, perché la paura c’era eccome. Moltissimi partigiani rinchiusi nelle carceri tedesche, avrebbero dato qualsiasi cosa per non soffrire, perché ci fosse un altro modo, perché non dovessero essere proprio loro a patire le pene dell’inferno. È difficile essere un eroe. È difficile non mollare, tenere duro e non pensare a come sarebbe stata la propria vita se ci si fosse semplicemente girati dall’altra parte, evitando questo martirio. Ma è stata proprio la paura ad averli resi degli eroi. Non l’assenza della paura, ma il coraggio di tenerle testa. Sui muri delle carceri si trovano molte scritte: “Addio piccola mia, non serbarmi rancore”, “Mamma!”, “Non voglio morire!”. Scritte di giovani che avevano paura, ma anziché subire hanno preferito lottare, disobbedire. E in un mondo che ti impone di inginocchiarti, il solo fatto di rimanere in piedi è già una vittoria.

Cos’è rimasto oggi di tutto questo?

Una data sul calendario? Una scampagnata tra bandiere rosse e discorsi vuoti? Una cerimonia con corone d’alloro e parole sbiadite come le fotografie in bianco e nero? Se è così abbiamo tradito tutto. Abbiamo tradito i ragazzi impiccati, torturati, fucilati. Abbiamo tradito quella paura che li faceva piangere e scrivere “Mamma!” sui muri delle celle, e che nonostante tutto non li ha fermati. Abbiamo tradito la loro umanità, che era il loro coraggio. Perché erano giovani, come noi. Avevano paura, come noi. Ma hanno scelto di Resistere. E noi?

Oggi celebriamo la Resistenza senza Resistere a nulla. E questo è il nostro vero peccato: non l’ignoranza, non la distanza storica, ma il tradimento quotidiano di ciò che hanno fatto i partigiani. Perché se la Resistenza è ridotta ad una commemorazione svogliata, allora noi non siamo degni neppure di pronunciarla, quella parola. Perché la verità, la sola verità, è che oggi della Resistenza non ce ne importa più niente. E ciò che non importa, muore. La Resistenza, oggi, è morta due volte: la prima uccisa dall’indifferenza, la seconda dalla retorica.

Oggi noi, giovani liberi per diritto ereditato, possiamo permetterci il lusso dell’indifferenza. Possiamo fingere che la Resistenza sia una questione del passato. Possiamo seppellirla sotto le commemorazioni e gli anniversari. Ma la verità è che il mondo continua ad aver bisogno di Resistenza, e non potrebbe essere altrimenti. Ogni volta che si tace davanti all’ingiustizia. Ogni volta che si china la testa per quieto vivere. Perché le dittature non sono mai scomparse, chi vuole il potere tutto per sé non è mai sparito, e in ogni parte del mondo c’è ancora chi lotta per le stesse libertà di cui ci stiamo dimenticando. E noi, invece di lottare, ci distraiamo con gli smartphone, con i social che con i loro algoritmi ci mostrano solo ciò che vogliamo sentire e vedere, ciò che è simile a noi. Soprattutto noi giovani abbiamo il dovere di vivere la Resistenza. Ogni volta che la violenza viene sdoganata, che l’odio diventa normale. Ogni volta che i governi accettano accordi internazionali che calpestano i diritti umani e trasformano l’umanità sopracitata in un peso da scaricare sul primo barcone che affonda. Ogni volta che viene approvata una legge ingiusta e allora amare il proprio paese vuol dire disobbedire, alzare la voce. E sapete perché? Perché il passato non è passato. È nascosto sotto la superficie. E ci guarda. E oggi, oggi che la politica s’impregna di parole e gesti d’odio, di intolleranza mentre noi voltiamo lo sguardo, cambiamo canale, cos’è, se non questo? Cos’è se non la pace, la quiete comprata con l’indifferenza?

Cosa dovrebbe imparare un giovane da questo?

A fingere? A lasciar correre? Se è così, allora non abbiamo capito niente. Anzi: allora abbiamo tradito tutto. Abbiamo tradito chi ha disobbedito per farci nascere liberi. Abbiamo tradito quei giovani che hanno scelto la galera invece del silenzio. E noi, invece, cosa scegliamo? La neutralità. L’apatia. L’idea ridicola che la storia sia un esercizio di memoria e non di responsabilità.

Ma la verità è che la storia non è finita. E se non reagiamo, se non Resistiamo, siamo complici di un nuovo tradimento. Resistere oggi significa, per esempio, dire che chi muore in mare non è un “problema” ma un essere umano. Significa guardare il mondo e smascherare i nuovi fascismi che sono tali anche se indossano abiti puliti, giacca e cravatta e sorridono in TV. Resistere oggi significa capire che non esistono spettatori innocenti. Che il silenzio è complice, sempre. Che il disinteresse è una scelta. E infine oggi la Resistenza si chiama anche voto. Andare a votare non è un’opinione, è un dovere morale. Chi non vota, come se la democrazia fosse scontata, rinuncia. Chi non vota lascia che gli altri scelgano per lui. E allora non si lamenti, non dica “Non mi riguarda, non mi schiero”. Perché si è già schierato. Ha già scelto da che parte della storia stare. Dalla parte del più forte. Resistere oggi vuol dire questo: non accettare più compromessi con la coscienza. Significa sputare in faccia all’indifferenza. Significa non voler essere complici. Non adesso. Non più.

La partigiana Teresa Mattei disse: “La cosa più importante della nostra vita è aver scelto la nostra parte”. I partigiani hanno già scelto. E tu?

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