Il futuro dell’Italia passa dai migranti: solo integrazione e salario minimo possono fermare il declino
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Il futuro dell’Italia passa dai migranti: solo integrazione e salario minimo possono fermare il declino

Ad un mese dal (fallito) referendum è utile riflettere, a mente fredda, sulla direzione che sta intraprendendo l’Italia. L’Osservatorio sui Conti Pubblici, in questi giorni, ha rilanciato gli scenari del WGA, il gruppo di lavoro europeo sull’invecchiamento della popolazione.

Il futuro dell’Italia passa dai migranti: solo integrazione e salario minimo possono fermare il declino
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5 Luglio 2025 - 21.12


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di Dario Spagnuolo

L’Italia è il Paese più vecchio d’Europa ed è anche quello che invecchia più rapidamente di tutti. È al secondo posto tra i paesi più anziani del mondo, subito dopo il Giappone.

Dal 2014, anno in cui la popolazione ha raggiunto il suo massimo (60,4 milioni di abitanti), la discesa è stata inarrestabile. Crisi delle nascite, emigrazione dei giovani e mancato afflusso di migranti rappresentano una combinazione letale: l’Italia sta scomparendo.

Con il ritmo attuale, tra 10 anni l’Italia perderà circa 5 milioni di abitanti (all’incirca la popolazione del Veneto!), a metà del secolo (2050) gli italiani saranno già meno di 50 milioni e nel 2100 si tornerebbe ai numeri dell’unità d’Italia: circa 28 milioni di abitanti.

Anche le stime più ottimistiche confermano queste previsioni, con l’aggravio che si tratta di popolazione in maggioranza anziana. Attualmente, il 23,4% dei residenti in Italia ha più di 65 anni, mentre i giovani in età prescolare o in obbligo scolastico (0 – 16 anni), sono il 13,9%. Insomma, poco più del 60% degli italiani è in età lavorativa. Tenuto conto anche del tasso di disoccupazione, ogni lavoratore italiano deve sostenere almeno un’altra persona anziana, minore o priva di impiego, ma la situazione è destinata rapidamente a peggiorare.

Le conseguenze di questo declino sono molteplici e tutte negative. Spopolata e anziana, l’Italia si troverebbe a contare sempre meno nel contesto europeo e internazionale, ritrovandosi fuori dal novero delle nazioni più popolose.

L’enorme numero di anziani, a fronte di un esiguo numero di lavoratori, provocherebbe una crisi economica e sociale diffusa: basse pensioni, servizi scarsi o assenti, calo dei consumi e recessione economica.

Dinanzi a questo tracollo, l’Italia si ostina ad opporsi a qualunque politica migratoria che abbia senso. Davanti agli Uffici Immigrazione delle Prefetture, tutti oramai delocalizzati in luoghi meno visibili per non turbare l’opinione pubblica, file interminabili di migranti in attesa di rinnovare il permesso di soggiorno testimoniano quanto si sia lontani da un reale percorso di integrazione.

L’arrivo dei migranti, poi, è osteggiato con ogni mezzo, salvo poi programmare l’ingresso di mezzo milione di lavoratori dall’estero nel prossimo triennio. Un meccanismo tortuoso che ha come unico effetto quello di alimentare la tratta.

Secondo la vulgata, criminalità e povertà sono effetto dell’arrivo dei migranti. A nulla vale ricordare che si tratta di piaghe che attanagliano il paese da molto prima che divenisse terra di immigrazione.

La narrazione mediatica del fenomeno migratorio, con il susseguirsi delle immagini dei barconi funzionale all’immagine collettiva dell’“invasione”, si scontra con una realtà completamente diversa: in Italia di migranti ne arrivano pochi. In Germania i migranti sono oltre 15 milioni, il 18% della popolazione residente. Se si considerano anche le acquisizioni di cittadinanza, i residenti tedeschi con origini straniere sono un terzo della popolazione totale. In Francia gli immigrati sfiorano i 7 milioni, oltre il 9% dei residenti totali; un ulteriore 11% è dato dai francesi con origini straniere.

In Italia gli stranieri non arrivano a 5 milioni e mezzo, meno del 9% del totale dei residenti. Sono per oltre la metà europei e per più di un terzo cittadini comunitari, la comunità più numerosa è quella della Romania. Le acquisizioni di cittadinanza sono poche e, comunque, richiedono tempi molto maggiori che nel resto dei paesi europei.

Il moltiplicarsi dei conflitti, poi, ha fatto completamente scomparire i “migranti economici”. Si giunge in Italia per fuga, non per scelta, e appena possibile ci si reca in paesi più accoglienti, in cui per ottenere il permesso di soggiorno non occorrono anni: dai due mesi previsti dalla legge, ai due anni secondo un’indagine della CGIL (2024).

Eppure, proprio i migranti potrebbero rappresentare la soluzione allo squilibrio demografico. E’ ovvio, infatti, che anche un’inversione nell’andamento delle nascite non potrebbe sanare gli ammanchi già determinatisi nella piramide delle età. Rappresenterebbe al più un investimento i cui primi frutti non giungerebbero prima di una ventina di anni.

Quella immigrata è una popolazione giovane: il 77,2% degli stranieri in Italia è in età lavorativa, mentre appena il 5,6% ha superato i 65 anni. In termini economici sono una enorme opportunità: sono in età lavorativa, i costi di formazione sono stati in gran parte sostenuti dai paesi di provenienza, contribuiscono alla spesa globale, pagano le tasse e, quelli in regola, anche i contributi.

Bisognerebbe, insomma, programmare e facilitare gli ingressi regolari dei migranti, ad esempio potenziando programmi come i “Corridoi umanitari” portato avanti dalla Comunità di Sant’Egidio, che garantisce l’ingresso in regola e facilita l’inserimento lavorativo.

Al contrario, tutta la politica italiana sembra muoversi in direzione contraria, nell’apparente inconsapevolezza del disastro che si avvicina. Inconsapevole perché il referendum sulla cittadinanza ai migranti in realtà è profondamente collegato a quelli sulla tutela del lavoro.

Tra le accuse più frequenti rivolte ai lavoratori stranieri è che praticherebbero una concorrenza sleale nei confronti degli italiani, spingendo i salari al ribasso. Nei rari casi in cui questo accade, poiché quasi sempre i lavoratori stranieri occupano posti che gli italiani rifiutano, la concorrenza sleale è dovuta all’assenza del salario minimo. Nei numerosi paesi in cui esiste, solo nell’UE sono 22, il salario minimo rende evidenti le condizioni di sfruttamento e spinge al rialzo i salari ed i consumi. Dove è stato adottato, rappresentando un evidente limite di legge, il salario minimo ha favorito il riequilibrio retributivo, di cui l’Italia avrebbe un grande bisogno considerato il divario stipendiale crescente e i milioni di lavoratori poveri.

Il salario minimo, inoltre, scardinerebbe il dualismo tra lavoratori italiani e lavoratori stranieri. Infatti, è lo status giuridico dei lavoratori stranieri a renderli ricattabili e sottopagati. In questo contesto, gli imprenditori privilegiano i lavoratori non italiani per la sola ragione che risparmiano sul costo del lavoro. Sono gli stessi imprenditori che, appena possono, delocalizzano la produzione in paesi con il costo del lavoro infimo. È una scelta al ribasso estremamente dannosa per l’intero sistema paese, perché non privilegia la qualità della produzione ma semplicemente i profitti dell’imprenditore. Se le condizioni salariali fossero pari, come auspicato peraltro dagli economisti liberisti, l’imprenditore sceglierebbe la manodopera migliore. Si innescherebbe così un circolo virtuoso con una sana competizione: a parità di salario si sceglierebbero i lavoratori migliori e per accaparrarsi i lavoratori migliori le aziende dovrebbero negoziare salari adeguati. Lavoratori più qualificati, poi, consentirebbero produzioni di eccellenza. Invece, la situazione generale del sistema produttivo italiano è ben rappresentata dalle vicende del comparto elettrodomestici, non proprio alta tecnologia. La brianzola Candy è stata acquisita dai cinesi e qualche anno fa anche la Merloni (Ariston), tra i principali conterzisti in Europa, ha chiuso i battenti.

Insomma, un intervento di giustizia nel mercato del lavoro potrebbe dare impulso all’economia e alle innovazioni di prodotto e di processo.

Al contrario, persino un esponente di spicco del governo, come Antonio Tajani, afferma pubblicamente che il salario minimo è “da paesi comunisti”, laddove è in vigore in 22 dei 27 paesi dell’Unione Europea, tra cui Germania, Francia, Spagna, Portogallo, Lussemburgo … Quella del governo, insomma, sembra essere una posizione pregiudiziale e immotivata. Interventi di tutela del mercato del lavoro sono necessari e potrebbero avere un effetto positivo su produttività, consumi, salari, fiscalità.

I quattro quesiti in materia di occupazione non riguardavano, né potevano riguardare, il salario minimo. Tuttavia, una riflessione sui meccanismi del mercato del lavoro sarebbe stata opportuna e persino urgente alla luce di quanto avviene in Italia.

Tutelare i lavoratori delle imprese minori, esigere la responsabilità solidale delle grandi imprese che subappaltano a quelle più piccole imponendo condizioni capestro, all’origine di tanti incidenti sul lavoro, sarebbe stato un segnale importante per il paese.

L’Italia, invece, sembra restare un paese di sonnambuli, secondo la felice definizione del Censis (2023). Avviata sul declino demografico, economico e politico, l’Italia sogna un paese inesistente senza accorgersi che il rilancio passa proprio per la valorizzazione e l’accoglienza di coloro i cui diritti sono conculcati: le famiglie migranti.

Forse sarebbe ora di smettere di chiamarli “immigrati” o “stranieri”. Sono da decenni in Europa e tanti di loro manifestano un’adesione entusiastica ai valori democratici ben superiore a quella di talune forze parlamentari.  Sono “nuovi europei”. Il futuro dell’Italia passa per loro, ma bisogna volerlo e il primo passo è guardare, da svegli, al declino del paese.

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