Dicono, scrivono, mobilitano filosofi con l’elmetto, “arruolano” politici compiacenti. Occupano i talkshow televisivi, le prime pagine della stampa mainstream. Tutto per propagandare la favola che spendere in armi è cosa buona e giusta. E chi osa sostenere il contrario è un pacifista imbelle, un utile idiota al servizio dell’Hitler del Cremlino. E visto che quei malefici pacifisti vorrebbero la cancellazione del Memorandum con Israele che permette di vendere armi ai carnefici di Gaza, allora sono pure dei spregevoli antisemiti.
Dicono che una Europa disarmata è una Europa che si concede al despota russo e alla dipendenza dal tycoon di Washington.
Per i riarmisti in servizio permanente effettivo, l’Europa esiste, conta, se è iper-armata. Non, se ha una politica estera condivisa, coerente, che non reiteri la impudente logica dei due pesi, due misure, per la quale Vladimir Putin è un autocrate sanguinario e aggressore, dunque da sanzionare e isolare, mentre il criminale di guerra israeliano, Benjamin Netanyahu, è uno statista da omaggiare.
Infiocchettano, ammoniscono, questi europeisti in armi. Chi eccepisce va killerato mediaticamente per poi essere fatto fuori politicamente. Per questo Elly Schlein è sotto attacco. Perché si è permessa di eccepire sull’aumento vertiginoso deciso dal governo italiano, su dettato americano, delle spese militari al 5% del Pil.
Il complesso militare-industriale è potente. Molto potente. Il complesso militare-industriale è influente. Molto influente. Può decidere carriere. Può dare o negare pubblicità. E molto altro ancora.
Per aver contezza di cosa si stia parlando, è utile riportare quanto scritto da Enrico Piovesana per Mil€x, Osservatorio sulle spese militari.
Scrive Piovesana: “L’accordo sottoscritto dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni oggi al vertice Nato dell’Aia comporta per tutti gli alleati, anche per l’Italia, l’impegno a raggiungere entro il 2035 un duplice impegno finanziario.
Da una parte il 3,5% del Pil – obiettivo ricalcato sull’attuale livello di spesa militare degli Stati Uniti – in spese militari tradizionali, vale a dire investimenti in armi, mezzi, munizione, costi operativi, stipendi e pensioni del personale delle forze armate, spese per le missioni internazionali e – novità – per il sostegno militare all’Ucraina.
Dall’altra – per raggiungere il simbolico 5% richiesto dal presidente degli Stati Uniti – un aggiuntivo 1,5% del Pil in spese per la sicurezza nazionale in senso lato, il che significa costi per cybersicurezza, resilienza delle infrastrutture critiche (centrali elettriche e reti di telecomunicazione terrestri e satellitari), efficientamento delle infrastrutture strategiche di mobilità militare (ferrovie, strade, ponti, porti e aeroporti), difesa delle frontiere, mezzi e personale delle forze di polizia militare, presidi medici contro attacchi nucleari-chimici-batteriologici, chimici e batteriologici e altri capitoli di spesa a discrezione delle singole nazioni. Da sottolineare che il 1,5% comprende anche spese per “promuovere l’innovazione e rafforzare la nostra base industriale della difesa”: una dicitura che potrebbe facilmente ricomprendere un canale aggiuntivo di finanziamento al riarmo.
Al netto di questo, risulta evidente che l’obiettivo dell’1,5% in sicurezza sarà agevolmente conseguibile solo conteggiando sotto questa voce una vasta gamma di spese già sostenute o già programmate, per di più con la possibilità di attingere ai fondi europei del Pnrr che già prevede capitoli di spesa in alcuni di questi settori: dalla cybersicurezza alle telecomunicazioni, dalle reti energetiche alle infrastrutture strategiche e di mobilità militare.
La vera sfida, dal punto di vista finanziario, riguarda dunque il raggiungimento dell’obiettivo del 3,5% in spese militari “pure” per le quali andranno reperite risorse nuove nel bilancio dello Stato. Per fare chiarezza sull’entità dello sforzo finanziario richiesto all’Italia, va sgomberato il campo da equivoci più o meno voluti sul punto di partenza attuale. Il 2% del Pil recentemente annunciato dal governo come obiettivo già conseguito considerando anche spese correnti in sicurezza è la base di partenza “olistica” da cui partire per raggiungere l’analogo obiettivo del 5%. Per le spese militari tradizionali invece il punto di partenza è l’1,57% del Pil. Ciò significa che ci vorranno quasi due punti di Pil aggiuntivi per arrivare al target del 3,5%.
In valore assoluto significa che l’Italia, per portare in dieci anni la spesa militare annua dagli attuali 35 miliardi agli oltre 100 miliardi, cioè per triplicarla, dovrà reperire ogni anno in manovra nuove risorse finanziarie nell’ordine dei 6-7 miliardi, ogni anno per dieci anni. Questo si traduce in un impegno cumulativo decennale di spesa di quasi 700 miliardi di euro, circa 220 miliardi in più rispetto a quello che si spenderebbe in dieci anni se invece del 3,5% si puntasse a raggiungere il 2% in spese militari ‘core’, con aumenti di spesa annuali medi nell’ordine dei 2 miliardi.
La flessibilità concessa ai singoli alleati Nato sul percorso finanziario da seguire per arrivare all’obiettivo finale, con l’assenza di target di spesa annuali da rispettare ma che comunque deve essere “incrementale” e “credibile”, lascia al governo la possibilità di rinviare il grosso degli aumenti di spesa, ma questo non cambia la sostanza di un impegno finanziario cumulativo decennale che supererebbe comunque i 600 miliardi, 140 miliardi in più rispetto allo “scenario 2%”.
Così Piovesana. 700 miliardi di euro. Questa è la posta in gioco.
Valori, ideali, non c’entrano nulla. E gli arruolati dal complesso militare-industriale lo sanno bene. Molto bene.