di Dario Spagnuolo
A Padova e a Firenze alcuni maturandi, ormai certi della promozione, hanno rifiutato di sostenere il colloquio orale. Sul loro esempio si segnalano altri casi a Treviso e a Belluno. Questo comportamento è sostenuto dalla rete degli studenti che denuncia il disagio dinanzi ad una scuola troppo competitiva. L’accaduto non deve suscitare sorpresa. Chi vive nella scuola sa bene che proprio gli alunni sperimentano il disagio di una politica scolastica dissennata che ha caratterizzato gli ultimi 30 anni. Ciò nonostante, il centro-destra ha condannato il comportamento, ritenuto sovversivo, invitando le commissioni a bocciare coloro che si presentano al colloquio orale facendo scena muta, cosa oggettivamente difficile se hai già raggiunto il punteggio utile ad essere promosso.
Pochi sono entrati nel merito della questione, che invece è uno dei temi bollenti della scuola italiana, da sempre oggetto di continue riforme, a colpi di circolari ministeriali che spingono nella direzione di una scuola più selettiva e “meritocratica”. Basti pensare che alla scuola primaria si è passati, nel giro di pochi anni, dai voti ai giudizi e, ad anno scolastico in corso, un ulteriore decreto ministeriale ha modificato i giudizi, passati da 4 a 6. Tutto ciò, sebbene la scuola primaria faccia parte del I ciclo di istruzione e, dunque, trovi il suo coronamento nell’esame conclusivo di “terza media”. Qui, infatti, dopo un triennio in cui si usano i voti si passa ad una valutazione mista, voti, giudizi e anche medie aritmetiche.
E’ andata anche peggio nelle scuole superiori, dove nel 1998 la riforma ha trasformato in “esame di stato” il vecchio “esame di maturità”. Una definizione effettivamente impropria, che dovrebbe rimandare tra i banchi di scuola tanti politici italiani che offendono, urlano, abbaiano dimostrando di non avere un briciolo di maturità.
L’esame di stato, infatti, ha introdotto il credito scolastico e formativo, continuamente innalzato nel corso degli anni, e i voti alle prove. Punteggi di anno in anno ballerini, con possibili attribuzioni di “bonus” lasciate all’arbitrio delle commissioni e interminabili collegi dei docenti per decidere su un punto in più o in meno di credito formativo.
Con estrema lucidità, i maturandi hanno colpito al cuore un sistema di valutazione incoerente, in cui i giudizi si intervallano ai voti, agli emoticon, alle medie aritmetiche.
Tecnicamente, il discorso è complesso. Innanzitutto, le medie aritmetiche non potrebbero essere utilizzate. Voti e giudizi, in Italia, esprimono sempre la medesima cosa: descrizioni di prestazione. I numeri, dunque, non sono quantità, ma simboli che rinviano a una valutazione che non è numerica e dunque non può essere ricondotta ad una media aritmetica.
Inoltre, nella scuola coesistono tre diverse prospettive che non trovano mai una sintesi efficace: valutazione formativa, sommativa e per competenze.
La valutazione formativa o “per l’apprendimento” è utilizzata durante le singole prove e deve fornire allo studente chiare indicazioni per migliorare. Tiene dunque conto di più indicatori e più descrittori. E’ il caso, ad esempio, di un elaborato di italiano di cui si valutano competenza lessicale (varietà e corretto uso dei lemmi), struttura morfosintattica (presenza di frasi coordinate e subordinate, concordanza di genere e numero …) e dell’argomentazione (sequenza logica con cui sono esposti fatti e commenti, validità delle argomentazioni proposte).
Agli occhi delle famiglie e della società, però, l’unica valutazione rilevante è quella sommativa, che giunge alla fine di un percorso scolastico e cerca di misurare gli apprendimenti: a che punto è arrivato lo studente. Con la valutazione sommativa, dunque, è possibile stilare una graduatoria e affermare che il proprio figlio è migliore di altri. In una società commerciale è evidente che l’importanza della valutazione sommativa sia esasperata soprattutto dalle famiglie, anche perché ogni insuccesso scolastico si tramuta in un’onta per il proprio clan.
Infine, c’è la valutazione per competenze, di cui una delle massime esperte è Franca Da Re. In Italia la parola “competenza” ha un significato molto diverso da quello che ha in Unione europea, dove è la capacità di sapere applicare conoscenze e abilità in un contesto reale. Non a caso, le competenze si valutano tramite i compiti “di realtà” che quasi sempre sono di gruppo, insomma l’esatto contrario della scuola individualista e competitiva. Le competenze di riferimento, poi, sono quelle di cittadinanza (D.M. 139/2007) tra cui collaborare, imparare ad imparare, acquisire e interpretare informazioni … e quelle europee, aggiornate nel 2018, tra cui si trovano competenza linguistica, digitale, imprenditoriale …
Quasi nessuna di queste competenze rientra in una materia o è oggetto di una valutazione sistematica. La stessa certificazione delle competenze, compilata da INVALSI e dalle scuole, è un documento utile a sanare la discrepanza esistente tra i diversi sistemi di istruzione e formazione in Europa, ma scarsamente coerente con la pratica didattica quotidiana.
In fin dei conti, il peso di una valutazione equa, trasparente, formativa, ricade sui collegi dei docenti e sui consigli di classe. Il risultato finale non può che essere eterogeneo, con scuole che, prosaicamente, promuovono tutti a larghi voti e altre che valutano ciascuno con attenzione, assumendosi però il rischio di continui ricorsi da parte delle famiglie.
In ogni caso, il voto finale non dice nulla dell’alunno, anche perché il diffuso utilizzo delle medie umilia tutte le attitudini individuali: non c’è differenza tra un alunno mediocre in molte materie, ma brillante in matematica, ed uno diffusamente sufficiente.
C’è da chiedersi, inoltre, se il voto abbia ancora valore, almeno all’interno della Pubblica Amministrazione nella quale, come recita l’art. 97 della Costituzione, dovrebbero lavorare coloro che hanno superato un concorso. Oggi i canali di cooptazione sono troppi e diversificati. Una raffica di provvedimenti di legge, poi, ha incoraggiato le università e gli enti di formazione privati a produrre attestati e certificazioni, quasi sempre ottenuti in poche ore in cambio di somme cospicue. Già da tempo, insomma, voto e merito procedono su strade differenti.
Anche come elementi di valutazione del sistema di istruzione e formazione, i voti non contano nulla. Ogni anno, ad esempio, le prove INVALSI dimostrano che i risultati migliori si hanno nelle regioni e nelle città in cui il tempo scuola è maggiore, ci sono le mense scolastiche, le palestre sono funzionanti e le amministrazioni comunali curano manutenzione degli edifici, trasporto scolastico e servizi per l’inclusione. Eppure, dei milioni di euro impiegati ogni anno in innumerevoli progetti quasi nulla è destinato per il tempo pieno, per il rifacimento delle palestre, per la manutenzione delle scuole.
Resta, però, la competizione scolastica, ovvero una scuola in cui non si impara a collaborare, ma a vedere nel compagno un antagonista. Se negli anni recenti è scoppiato il problema del bullismo è anche perché la scuola non unisce più, ma divide, secondo i dettami di un approccio mercantile e aziendalista privo di fondamento scientifico e pedagogico. L’alunno è considerato come una merce da acquistare e i voti diventano il mezzo per accrescerne il prezzo.
E’ poi significativo che le prove INVALSI rivelino come siano diminuite le competenze in lingua italiana. Sempre meno alunni sono in grado di leggere e interpretare un testo in madrelingua. Un tempo la televisione insegnava l’italiano alle masse, ora invece i messaggi sono confusi e rabbiosi, pieni di strafalcioni e di neologismi discutibili. Le argomentazioni non contano più nulla, l’importante è una comunicazione “emotiva”, capace di suscitare nell’altro una condivisione estemporanea, basata sulle sensazioni e non sui fatti. Anche in questo caso, per quanto il problema sia chiaramente individuato, azioni e risposte vanno in tutt’altra direzione. Si lavora sulle STEM, sul digitale, sul coding, si acquistano stampanti 3D e visori per la realtà virtuale. Scrivere, però, resta un’attività marginale, mentre la lettura è confinata in spazi angusti e metodiche tradizionali.
Con maggiore coerenza degli adulti, i più giovani hanno scelto di contestare un sistema di voti che ha perso ogni valenza formativa e metacognitiva. Prima di condannare, prima di scegliere il muro contro muro, con la consueta supponenza di un paese vecchio e gerontocratico, è bene allora fermarsi a riflettere: una vera riforma della scuola passa dall’ascolto degli studenti, perché è a loro che la scuola si rivolge e nelle loro mani è il futuro del paese, che lo si voglia o meno.
Forse, nel rendere palesi le contraddizioni del sistema di valutazione, gli studenti ci hanno fatto un favore. L’importante è guardare agli eventi con lo sguardo dell’insegnante, di chi è abituato al dubbio e non ha timore di essere messo in discussione.