di Fabio Luppino
Quando perdi anche a casa tua devi lasciare. Se non si fidano di te quelli che ti conoscono, pensa gli altri. Sono regole semplici della vita. La politica si concede eccezioni, poi qualcuno li chiama casta e si irritano.
Ma prima o poi i conti con la vita toccano anche a loro. La sconfitta a Bettola di Bersani vale più di tanti sofismi politologici. In realtà, i numeri parlavano anche prima del 25 febbraio 2013. E davano, con immota verità, la forza presunta del segretario Pd. Nessuno se lo chiede ora, ma quali doti da leader ha mai manifestato Pier Luigi Bersani? Quale sogno, quale idea di società ha incarnato mai? Cambiamento, bellissimo. Ma come ha portato verso il cambiamento il suo partito? Niente, non ce l’ha portato, perché per cambiare ci vogliono due requisiti fondamentali: coraggio e leadership riconosciuta. Il primo non è emerso, la seconda è sempre stata posticcia. Vediamo. Nel 2009 l’uomo di Bettola vinse le primarie con il 53,1% e un milione 603mila voti. Franceschini poco più di un milione di voti e il 34,3%, Marino 378mila voti e il 12,5%. Tutto l’apparato era con lui, Franceschini aveva solo Veltroni, Marino solo Marino. Tre anni da segretario gli hanno fatto perdere oltre 200mila voti. Eh, sì. Sono numeri poco contati e invece danno il senso. Con tutto l’apparato dalla sua parte e la polarizzazione dello scontro per la presenza di Matteo Renzi, Bersani si è fermato, al primo turno, a un milione e 393mila voti, Renzi ha avuto più o meno i voti di Franceschini, Vendola 458mila e Laura Puppato 80mila. Il che rivaluta la performance di Franceschini, ma rende ancora meglio il debole risultato di Bersani.
Quanto a risultati politici, andiamo ancora peggio. Alle regionali del 2010 il centrosinistra ha perso in Piemonte, dove governava con Bresso, in Campania, dove c’era Bassolino, nel Lazio, dopo il caso Marrazzo e una debolissima campagna elettorale per la Bonino, la Calabria, dove c’era Loiero. Ha confermato le sue roccaforti. Il bagno di Bersani, di cui nessuno parla, avviene nel 2011 e anche nel 2012. Il Pd non riesce a piazzare nessuno dei suoi come candidato sindaco nelle citta dove si è votato. A Milano la spunta Pisapia, a Napoli de Magistris, a Genova Doria, a Cagliari Zedda, a Palermo Orlando. Nessuno dei piddini in campo vince le primarie. Si può anche esaltare lo spirito di coalizione dei democrat, ma certo un bel segnale è arrivato quanto a polso sul territorio del Patito democratico. Con la sciatteria e il finto unanimismo con i quali si è giunti fino ai giorni nostri, queste vicende sono state rapidamente archiviate e per Bersani ha fatto merito la sua umanità, il suo essere un uomo per bene, ci mancherebbe.
Ai tempi del Pci i voti si contavano non per fare dichiarazioni alla stampa e una twittata. Bersani ha vinto qualcosa, prima del 25 febbraio, solo quando ha giocato in casa. Quando è uscito dal perimetro pd sono state solo sveglie. Si dirà, i sondaggi erano buoni. Anche qui: il momento più alto del pd c’è stato dopo le primarie. Un sano confronto che ha appassionato anche chi era fuori dai democratici e con un panorama collassato intorno ha dato speranza alla politica. Senza Renzi, niente battaglia, niente appeal e oggi lo riconoscono anche i suoi oppositori. Anche qui: l’apparato si è schierato in un confronto che in alcuni momenti è sembrata una guerra di religione. Dove non sono mancati colpi bassi, anzi bassissimi.
Oggi si scopre che l’unanimismo era ipocrisia. Che Bersani parte con un pd intorno al 34% e con un mese robusto di campagna elettorale, che pare abbia fatto solo Bersani stando alle dichiarazioni di tutti gli altri, si ritrova poco sopra il 25%. La resistibile ascesa diventa dramma. In uno stile classico da Partito Democratico, quando si perde inizia la resa dei conti. Non ha risparmiato nessuno. Il tratto principale, alla luce dei fatti, del pd sembra proprio la finzione e l’ipocrisia. Nella vicenda del Quirinale esplodono entrambe. Si consuma una vendetta a lungo rimandata. Eppure le primarie sono state fatte solo quattro mesi fa. Bersani dimostra di non governare il partito. Ed è costretto alle dimissioni.
Non sapere più nulla, arroccarsi. Non parlare più con nessuno. Dover combattere con avversari invisibili. Questo è successo a Bersani. Cosa non ha funzionato in un partito, che ha la sua essenza nell’aggettivo, per scivolare nel canovaccio più trito delle faide dei partiti comunisti di oltre cortina, un tempo. In questo caso, però, la spina l’hanno staccata gli elettori.
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