Due anni fa, l’8 maggio 2012, Maurizio Cevenini si toglieva la vita gettandosi dalla finestra del suo ufficio al settimo piano della torre della Regione Emilia-Romagna. Il personaggio Cevenini, per tutti a Bologna “il Cev”, era “mister preferenze” del Pd: alle primarie prendeva ventimila voti, che equivalgono a un quarto dei consensi del partito sotto le Due Torri e a poco meno di un terzo degli iscritti democratici in Emilia-Romagna. L’uomo Maurizio era una persona del popolo, estroverso e generoso, il “figlio del barbiere” diventato il “sindaco dello stadio” che stava per diventare sindaco della città; di una città simbolo della sinistra e del buon governo che ha avuto come sindaci gente come Giuseppe Dozza, Renato Zangheri e Renzo Imbeni.
Una responsabilità grande per un personaggio “nazional-popolare” come il Cev, che deteneva il record di celebrazione dei matrimoni in Comune, viaggiava su una Smart con i colori rossoblu e la scritta “forza Bologna”, faceva coppia in tivù col comico romagnolo Giuseppe Giacobazzi ed era seguito nelle sue iniziative pubbliche da un videoreporter chiamato “Silver aria fritta”. Una pressione e un peso enormi per un uomo iperattivo ma fragile come Maurizio. Lo stress ne causò probabilmente l’ischemia, lo portò prima al ricovero in ospedale poi alla dolorosissima rinuncia alla corsa da sindaco. “Il mio sogno di una vita che svanisce”, disse riaccomodandosi mestamente nel seggio di consigliere regionale che non era posto per lui e nel quale lui non si era mai trovato a proprio agio.
Maurizio era per tutti quelli che l’hanno conosciuto una persona semplice, allegra, buona e gentile. Per me era anche un amico. Avevamo pure lavorato assieme per alcuni anni, quando lui era presidente del Consiglio provinciale e io capo ufficio stampa della Provincia. Se c’era uno che pensavi non sarebbe mai potuto finire così, quello era lui. Come si fa a pensare che un personaggio apparentemente realizzato e così amato come Cevenini possa suicidarsi? E in quel modo, poi? C’era, evidentemente, l’aspetto umano di Maurizio e la dimensione pubblica del “Cev”. Tutti conoscevamo il “Cev” ma sapevamo poco di Maurizio.
Quella frattura nascosta tra il personaggio e la persona si acuì in modo drammatico dopo la rinuncia a diventare sindaco di Bologna. Forse Maurizio si era sentito inadeguato a ricoprire quel ruolo pubblico così “sacro” e impegnativo. Lui, il volto positivo e popolare del Pd, ma anche il politico sui generis, con i suoi limiti, più bravo affabulatore che rodato amministratore. Tanto che i dubbi sulla sua capacità di governare la città e guidare l’amministrazione c’erano stati, eccome, dentro il suo partito. E lui li aveva sentiti e c’era stato male. Così male da gettare infine la spugna.
Dopo, per riprendersi, forse gli sarebbe bastato tornare a fare ciò che sapeva fare meglio: il presidente del Consiglio comunale, il recordman dei matrimoni e il “bravo presentatore”, come egli stesso qualche volta si era definito. Ma quello non glielo fecero più fare, né in Comune né in Regione. Ma può bastare questo a spiegare la sua scelta così drammatica ed estrema? Io credo di no. Credo che la ragione vera del perché anche uno come Maurizio decida di farla finita rimanga un mistero inesplorabile della psiche e dell’animo umano, in cui non mi arrischio di entrare. Un abisso che non si può spiegare con la logica, men che meno con la politica, che pure non è propriamente il luogo dei buoni sentimenti. Anche perchè, da politico, il “Cev” era comunque ben piazzato: consigliere regionale, consigliere comunale, in pole position per un seggio in Parlamento. Che per “il fiol dal barbir” non mi pare un brutto traguardo.
Quel che è certo è che Cevenini manca a tutti: a sua figlia, alla sua famiglia, a chi si sposa in Comune e a chi va allo stadio, alle feste dell’Unità e al suo partito, alle migliaia di amici che aveva su Facebook, a tutta Bologna.
In questi giorni sono diverse le iniziative in città per ricordare Maurizio. A Palazzo d’Accursio, in occasione della commemorazione del Consiglio comunale, è arrivato anche Massimo D’Alema. “Lo ricordiamo in particolare per il rapporto che aveva con le persone, coi cittadini – ha commentato l’ex premier – era capace di interpretare il sentimento delle persone comuni, una virtù purtroppo ormai diventata rara nella politica”.
Proprio così. Questa volta ha ragione Baffino.
Ciao Maurizio.