di Giovanna Musilli
Gli ultimi giorni di aprile sono stati costellati da una serie di eventi a dir poco inquietanti. Il 25, giorno della Liberazione, una fornaia di Ascoli Piceno è stata identificata dalle forze dell’ordine per ben due volte, a causa di quello che evidentemente è considerato un comportamento lesivo dell’ordine pubblico, o peggio, pericoloso: aveva affisso fuori dal suo negozio un lenzuolo con la scritta “25 Aprile, buono come il pane, bello come l’antifascismo”. Due giorni dopo, il 27, nella cittadina comasca di Dongo (dove a suo tempo – in realtà il 28 aprile – Mussolini, Claretta Petacci e 15 gerarchi vennero fucilati dai partigiani) poco più di cento nostalgici si sono riuniti per commemorare il Duce al grido di “presente!”.
L’Anpi locale ha organizzato una contromanifestazione, mentre le forze dell’ordine hanno stretto un cordone intorno alle camicie nere, così da evitare scontri. Nelle stesse ore, a Predappio, altri 150 neofascisti hanno commemorato lo stesso anniversario. Non è finita: il 29 aprile, circa duemila persone hanno sfilato a Milano, concludendo il corteo col saluto romano, per rendere omaggio a Sergio Ramelli, il giovane militante del Fronte della Gioventù ucciso 50 anni fa in un assalto di Avanguardia Operaia. Insomma, scene da anni ’70.
In un paese che avesse metabolizzato la propria storia, il governo avrebbe immediatamente condannato i raduni neofascisti, e avrebbe spiegato alle forze dell’ordine che non sono gli antifascisti a dover essere identificati, ma i fascisti. L’antifascismo dichiarato non è un’opinione sovversiva: è il fondamento della nostra meravigliosa Costituzione, e dovrebbe essere il collante della coesione sociale di un paese come l’Italia, (ri)nato proprio dalla Liberazione.
La nostalgia del fascismo manifestata come fosse una visione politica accettabile, invece, è un’opinione molto pericolosa per la convivenza sociale, oltre che essere profondamente in conflitto con la Carta costituzionale.
Nel paese al contrario in cui viviamo, invece, Ignazio La Russa – presidente del Senato, seconda carica dello Stato – in spregio al senso della misura, ha difeso i manifestanti neri elogiandone la compostezza e l’astensione da azioni violente. A La Russa evidentemente sfugge che già solo la commemorazione del Duce, nonché l’uso di simboli e posture fasciste, trasudano violenza e non possono essere comportamenti derubricati alla libera manifestazione del proprio pensiero. La Costituzione vieta di rifondare il partito nazionale fascista, ma non la manifestazione di opinioni fasciste. C’è però la legge Mancino del 1993 che, in effetti, oltre a punire le condotte che incitano all’odio e alla discriminazione, vieta l’ostensione di simboli e comportamenti riconducibili al fascismo. Ma sembrerebbe lettera morta.
Ecco, laddove non arriva la legge, però, dovrebbero arrivare l’indignazione pubblica, e soprattutto una netta presa di distanza del governo di turno, di qualsiasi orientamento politico sia.
Questo continuo nicchiare di FdI ai nostalgici, per accaparrarsene i voti, è un’operazione eticamente spregevole, e assai dannosa per tutti noi cittadini, perché contribuisce a sdoganare idee, valori, simboli e iniziative afferenti a quella galassia ben documentata da Fanpage nell’inchiesta “Lobby nera” del 2022. Si tratta di un’ideologia che, invece, dovrebbe essere scoraggiata, disprezzata e marginalizzata.
Sia chiaro, nessuno teme un ritorno dell’olio di ricino, delle camicie nere e del passo dell’oca. Ma – come il professor Luciano Canfora ha spiegato in un memorabile libricino intitolato “Il fascismo non è mai morto”, del 2024 – l’ideologia nera è un virus capace di assumere molteplici forme nel corso dei decenni, e gli accadimenti che hanno funestato la storia d’Italia anche dopo la fine del regime – dal “tintinnar di sciabole” alle connivenze fra gli ambienti della destra eversiva, la criminalità, i servizi deviati e la P2 – hanno ampiamente mostrato che non è mai stato sconfitto. È stato, per così dire, tenuto sotto controllo.
Da quando è in carica il governo di Giorgia Meloni, invece, si ha l’impressione che questo controllo sia completamente venuto meno e che anzi si favorisca la circolazione del virus fascista nascosto tra le pieghe di un nazionalismo identitario esasperato, di una concezione del potere che non tollera controlli né limiti (mentre promuove l’identificazione del capo con le masse), di un’impalcatura ideologica retrograda che pretende di dirigere la morale privata dei cittadini, e dell’ostilità verso le minoranze.
L’azione del governo, dalla riforma del premierato al recente decreto sicurezza, dalla restrizione dei diritti civili all’incapacità di pronunciare la parola “antifascismo”, è assolutamente coerente con il tentativo di normalizzare le manifestazioni nostalgiche e i saluti romani. L’esito di questa strategia sotterranea e ben mistificata, con l’aiuto di un’informazione spesso connivente, non sarà il fascismo del 1922: sarà il fascismo di cento anni dopo, cioè una democrazia in salsa ungherese o trumpiana. C’è di che preoccuparsi.
Argomenti: giorgia meloni