Intellettuali e responsabilità: sfida alle idee dominanti per ridare senso alla società

Cacciari afferma che il lavoro intellettuale "non è di destra o di sinistra" e che l'egemonia culturale è un fenomeno raro. Gramsci e Bobbio dicevano il contrario

Intellettuali e responsabilità: sfida alle idee dominanti per ridare senso alla società
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18 Maggio 2025 - 11.06


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di Antonio Picarazzi

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Cacciari afferma che il lavoro intellettuale “non è di destra o di sinistra” e che l’egemonia culturale è un fenomeno raro, limitato a forme estreme gestite dal potere, come quella di Gentile durante il fascismo. Queste affermazioni, tuttavia, trascurano le dinamiche complesse del potere simbolico e il ruolo attivo degli intellettuali nella costruzione dell’egemonia.

Contro la “Neutralità” dell’Intellettuale:

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Contrariamente a Cacciari, Gramsci ci insegna che tutti gli intellettuali sono “organici” a una classe o a un progetto culturale. Anche quando rivendicano la neutralità, le loro idee e le loro azioni contribuiscono a rafforzare o a contestare l’ordine sociale esistente. La “neutralità” di Cacciari, quindi, rischia di essere una forma di complicità con il potere dominante.

Bobbio, ancora, sottolinea la responsabilità etica dell’intellettuale nel difendere i valori democratici e nel criticare il potere. La neutralità può trasformarsi in un’acquiescenza rispetto alle disuguaglianze e alle ingiustizie. L’intellettuale non può sottrarsi al giudizio politico, poiché le sue parole hanno sempre implicazioni politiche.

Bourdieu ci mostra come il campo intellettuale sia uno spazio di lotta per il riconoscimento e per la definizione di ciò che conta come “legittimo”. Gli intellettuali occupano posizioni diverse all’interno di questo campo, influenzate dal loro capitale culturale, sociale ed economico. La “neutralità” di Cacciari maschera spesso la riproduzione di queste disuguaglianze.

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Esempi contemporanei di egemonia culturale
Non occorre sottovalutare la pervasività dell’egemonia, basti osservare il ruolo dei think tank neoliberali (es. la Mont Pelerin Society) nel plasmare il “senso comune” economico degli ultimi decenni trasformandoconcetti come “flessibilità del lavoro” o “austerità” in dogmi indiscutibili, pur presentandosi come portatori di una scienza economica “neutrale”. Uno studio del Corporate Europe Observatory (2021) rivela che i think tank neoliberali spendono 1,2 miliardi di dollari l’anno in Europa per influenzare politiche pubbliche, con un rapporto di 50 a 1 rispetto ai fondi per la ricerca critica. Questi sono numeri che smascherano il mito della “neutralità” perché dove c’è egemonia, c’è sempre un investimento materiale. Allo stesso modo, l’egemonia della destra oggi passa attraverso piattaforme come Fox News o certi circuiti accademici (es. le cattedre finanziate da fondazioni conservatrici), che normalizzano discorsi securitari o antiecologisti, mascherandoli da “buon senso”. Persino l’algoritmo di Google, privilegiando certi contenuti, è un vettore d’egemonia: chi decide cos’è “rilevante” oggi?

D’altra parte, esistono esempi di contro-egemonia culturale altrettanto significativi. Il movimento ambientalista Fridays for Future, ad esempio, ha ribaltato il discorso pubblico sulla crisi climatica che, da tema marginale è diventato “emergenza globale”, costringendo istituzioni e media a ricalibrare l’agenda politica. Uno studio del 2022 dell’Oxford Internet Institute mostra che l’attivismo digitale del movimento ha aumentato del 300% la visibilità dei contenuti scientifici sul clima, strappando il monopolio del dibattito ai think tank negazionisti finanziati dalle lobby fossili. Questo dimostra che l’egemonia non è un monolite e che può essere scalfita da intellettuali “organici” ai movimenti, che usano sapere e comunicazione come armi di trasformazione.

Contro la Visione Ristretta dell’Egemonia:

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L’egemonia, richiamando di nuovo Gramsci, non è solo il controllo coercitivo delle istituzioni, ma anche la capacità di una classe dominante di imporre la propria visione del mondo come “senso comune”. La “vaga egemonia sul piano della politica editoriale” menzionata da Cacciari, lungi dall’essere insignificante, rappresenta uno dei meccanismi attraverso cui l’egemonia si esercita.

Foucault ci aiuta a comprendere come il potere si eserciti attraverso la produzione di discorsi che definiscono ciò che è “normale” e ciò che è “deviante”. L’egemonia non è solo un fenomeno politico, ma anche un processo discorsivo che plasma le nostre percezioni e i nostri comportamenti.

Said ci mostra come la produzione di conoscenza sia intrinsecamente legata al potere. Le rappresentazioni dell’Oriente, ad esempio, sono state utilizzate per giustificare il dominio coloniale. L’egemonia, quindi, si manifesta anche attraverso la produzione di discorsi che legittimano le disuguaglianze.

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Obiezioni e risposte
Qualcuno potrebbe obiettare che questa visione rischia di politicizzare ogni sapere, svuotando il valore della conoscenza disinteressata. Eppure, proprio Foucault ci ricorda che non esiste un “esterno” al potere perchèpersino la matematica (si pensi alle sue applicazioni militari) ha implicazioni politiche. La differenza sta nel grado di consapevolezza e, in questo contesto, l’intellettuale “neutrale” che ignora il proprio posizionamento è più pericoloso di chi, come Said, ammette la parzialità del proprio sguardo. La conoscenza non smette di essere rigorosa quando riconosce le proprie radici, al contrario, guadagna in onestà intellettuale.

Cacciari fa riferimento a Max Weber per supportare la sua tesi sulla relativa autonomia della sfera intellettuale e sulla distinzione tra il piano scientifico-analitico e quello politico-valoriale. 

Weber sosteneva l’importanza della Wertfreiheit, ovvero la “libertà da valori” o “avalutatività” delle scienze sociali. Secondo questo principio, l’analisi scientifica dovrebbe sforzarsi di essere oggettiva e di distinguere nettamente i giudizi di fatto dai giudizi di valore. Cacciari potrebbe interpretare questo per sostenere che il lavoro intellettuale autentico, nella sua fase analitica, dovrebbe mirare a “dire le cose come stanno” indipendentemente dalle proprie inclinazioni politiche. L’intellettuale, come scienziato sociale, dovrebbe prima comprendere la realtà con rigore analitico.

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Inoltre, Weber nel celebre saggio “La politica come professione” (e in “La scienza come professione”) sottolinea la differenza cruciale tra il ruolo dello scienziato (o dell’intellettuale che produce conoscenza) e quello del politico. Lo scienziato è chiamato alla ricerca della verità e alla chiarezza analitica, mentre il politico agisce nel regno dei valori, delle decisioni e della lotta per il potere. Tale passaggio potrebbe essere usato come distinzione per argomentare che il “dovere” primario dell’intellettuale è quello di perseguire la comprensione razionale, mentre l’etichettatura politica è un’operazione successiva e “esterna” al valore intrinseco del suo lavoro.

Weber parla della “vocazione” dello scienziato, un impegno rigoroso verso la conoscenza e l’analisi. Questo concetto potrebbe sottolineare che l’intellettuale “in pace col suo dio” sarebbe colui che risponde a questa vocazione intellettuale primaria.

Weber era profondamente consapevole della complessità e del “politeismo dei valori” che caratterizzano la realtà sociale moderna. Questa consapevolezza potrebbe essere utilizzata per argomentare che ridurre il lavoro intellettuale a categorie politiche binarie (destra/sinistra) è una semplificazione eccessiva che non rende giustizia alla molteplicità delle prospettive e delle analisi possibili.

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Tuttavia, è importante notare che l’interpretazione di Weber da parte di Cacciari può essere parziale e contestabile. Come abbiamo visto con Gramsci, Bobbio e Bourdieu, la “neutralità” assoluta del lavoro intellettuale è messa in discussione dalla sua intrinseca connessione con il potere e con la produzione di significato all’interno di un contesto sociale e storico specifico. Anche la distinzione weberiana tra scienziato e politico, pur essendo concettualmente utile, non implica una totale separazione nella pratica, poiché le analisi degli intellettuali hanno spesso implicazioni politiche e possono influenzare il dibattito pubblico.

In sintesi, Cacciari si appella a Weber per sostenere l’idea di un nucleo “puro” del lavoro intellettuale che dovrebbe tendere all’oggettività e alla comprensione della realtà, distinguendosi dalle contingenze e dalle etichette politiche. Questa interpretazione trascura le critiche che evidenziano come il lavoro intellettuale sia sempre situato e intriso di implicazioni politiche, anche quando rivendica la propria autonomia.

Cacciari sostiene che il lavoro intellettuale, nella sua essenza analitica, debba aspirare all’oggettività, separando nettamente fatti e valori. Si richiama alla “avalutatività” weberiana, postulando una “vocazione” intellettuale pura, distinta dall’agire politico. La distinzione tra “scienziato” e “politico” diviene cardine: il primo ricerca la verità, il secondo agisce nel campo dei valori. Questa separazione giustifica la tesi che l’etichettatura politica sia esterna al valore intrinseco del pensiero. La complessità del reale, secondo Weber, rafforza l’idea di un’analisi che trascenda le categorie politiche binarie. Tuttavia, tale interpretazione ignora come il lavoro intellettuale sia sempre situato, intriso di implicazioni politiche, e che la pretesa di neutralità può celare posizioni di potere.

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La presunta neutralità non è solo irrealistica, ma potenzialmente complice di un’indifferenza verso le dinamiche di potere che plasmano la realtà. 

La tesi di un intellettuale “neutrale” che, come eco di Weber, separa rigidamente analisi e politica, fallisce nel riconoscere l’inesistenza di un terreno asettico per il pensiero. Ogni intellettuale, lungi dall’essere un osservatore distaccato, è intrinsecamente radicato in un tessuto sociale, culturale ed economico specifico. Questa “organicità”, come la definirebbe Gramsci, influenza inevitabilmente la sua prospettiva e le sue priorità analitiche. La pretesa weberiana di “avalutatività” diviene, in questa luce, non un’oggettività auspicabile, ma un’illusione che rischia di oscurare le radici sociali del sapere. Identificare scienziato e intellettuale come figure distinte è fuorviante, poiché entrambi operano nella produzione e diffusione di conoscenza, un’attività mai neutrale nelle sue implicazioni. La “vocazione” intellettuale non si realizza in un vuoto sociale, ma si nutre e contribuisce a specifiche visioni del mondo, rendendo ogni pretesa di assoluta indipendenza un’astrazione pericolosa, che sfocia nell’indifferenza critica verso le ingiustizie strutturali.

Le argomentazioni di Massimo Cacciari, con l’enfasi sulla presunta neutralità del lavoro intellettuale e la rigida separazione tra analisi e politica, si inseriscono perfettamente nel panorama post-ideologico che ha segnato la fine del Novecento. Tuttavia, questa prospettiva elude un aspetto fondamentale: la “verità” non è un’entità oggettiva e trascendente, ma è spesso il prodotto o la manipolazione di rapporti di potere esistenti, oppure è intimamente connessa con una specifica prospettiva di cambiamento dell’egemonia.

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La caduta delle grandi narrazioni e il disincanto verso i progetti di trasformazione sociale non hanno condotto a un’era di oggettività disinteressata, bensì a un terreno fertile per l’affermazione di nuove forme di dominio culturale. In questo contesto, la pretesa neutralità dell’intellettuale si rivela una pericolosa illusione. Ogni intellettuale opera all’interno di un campo di forze, e la sua “verità”, lungi dall’essere assoluta, è inevitabilmente influenzata dalla sua posizione e dai suoi interessi, consci o inconsci.

È nella lotta culturale per l’egemonia che si definisce il vero ruolo dell’intellettuale. Questa lotta, come ci ha insegnato Gramsci, è la battaglia per il controllo del “senso comune”, per la definizione di ciò che è considerato vero, giusto e desiderabile. In questo scenario, l’intellettuale non può sottrarsi al proprio posizionamento. La sua “verità” o rafforza l’egemonia esistente, magari ammantandosi di neutralità, oppure si connette a una prospettiva di cambiamento, smascherando le narrazioni dominanti e contribuendo alla costruzione di un nuovo consenso.

L’intellettuale che si illude di operare al di fuori di questa lotta, che si limita a un’analisi “oggettiva” senza interrogare le radici del potere e le sue manifestazioni ideologiche, finisce per essere funzionale al mantenimento dello status quo. La sua presunta equidistanza si traduce in un’acquiescenza di fatto verso l’egemonia dominante, spesso quella di una destra che ha saputo occupare il vuoto lasciato dalla crisi delle ideologie progressiste.

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La sinistra, per riconquistare terreno nella società civile, deve abbandonare l’illusione di una neutralità impossibile e abbracciare apertamente la lotta culturale per l’egemonia. Questo implica un impegno attivo degli intellettuali nel decostruire le narrazioni della destra, nel riarticolare una visione del mondo alternativa e nel contribuire alla costruzione di nuove piattaforme valoriali capaci di mobilitare la società civile verso un cambiamento reale. Agire oggi significa: 1) Sostenere reti accademiche indipendenti (es. Econosphères contro l’ortodossia neoliberale); 2) Occupare spazi digitali con contro-narrazioni (come fa Algoritmi Sociali con l’analisi dei bias tecnologici); 3) Costruire alleanze tra intellettuali e movimenti (il modello della Commissione Rodotà per i beni comuni). Solo così la “verità” diventa prassi trasformativa.

La “verità” che conta non è quella asettica e distaccata, ma quella che si radica in una prospettiva di trasformazione sociale e che si fa strumento di una nuova egemonia, orientata verso la giustizia e l’uguaglianza.

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