“Andrò a votare, ma non ritirerò le schede referendarie”: con questa dichiarazione, pronunciata nel giorno simbolico del 2 giugno, Giorgia Meloni ha scatenato la reazione durissima delle opposizioni, che accusano la premier di voler sabotare il referendum del prossimo 8 e 9 giugno, centrato su temi sociali e del lavoro, a partire dalla lotta alla precarietà, agli infortuni sul lavoro e ai licenziamenti facili. La scelta della leader di Fratelli d’Italia, che formalmente parteciperà al voto ma si asterrà di fatto dal pronunciarsi sui quesiti referendari, viene giudicata da più parti come un “invito mascherato” all’astensione. Una strategia che mira chiaramente a impedire il raggiungimento del quorum.
Tra i primi a intervenire, il senatore del Partito Democratico Dario Parrini, che non usa mezzi termini: “È un modo di astenersi e di sabotare il raggiungimento del quorum che ai fini numerici è identico a un’astensione classica. Si tratta di una scelta legittima, ma deve essere raccontata per quel che è: un invito all’astensione. Se viene presentata come un’alternativa ‘partecipativa’ all’astensione, è un imbroglio. E una Presidente del Consiglio non dovrebbe mai ricorrere all’inganno. Se lo fa, mostra scarso senso e rispetto delle istituzioni. Le parole di Meloni, dopo quelle altrettanto gravi di La Russa, sono un motivo in più per andare alle urne l’8 e il 9 giugno”.
Toni altrettanto duri arrivano da Angelo Bonelli, parlamentare di Alleanza Verdi Sinistra e co-portavoce di Europa Verde: “Mancava solo la presidente del Consiglio, e la lista dei sabotatori del referendum è completa: prima il presidente del Senato, poi i ministri, ora anche la premier. Non votano perché sanno di essere minoranza nel Paese, e usano l’astensionismo che a parole dicono di voler combattere a ogni elezione. Ma oggi, di fronte alla possibilità di migliorare concretamente la qualità della vita di lavoratori e lavoratrici, e di riconoscere diritti e doveri a chi vive e lavora in Italia, la destra organizza il sabotaggio della democrazia. Se anche la presidente del Consiglio è costretta ad annunciare che non ritirerà le schede, con l’obiettivo di non far raggiungere il quorum, significa una sola cosa: hanno paura della vittoria, perché sanno che il quorum può essere raggiunto. E allora rivolgo un appello a chi di solito non va a votare: stavolta andateci, e fate il contrario di ciò che il potere oggi vi chiede.”
Sul fronte del Movimento 5 Stelle, è stato direttamente il leader Giuseppe Conte a replicare a Meloni, sottolineando l’inopportunità del messaggio proprio nel giorno della Festa della Repubblica: “Indigna ma non stupisce che Meloni non ritirerà la scheda e quindi non voterà al referendum dell’8 e 9 giugno in cui si sceglie se aumentare i diritti e le tutele dei lavoratori contro precarietà, incidenti sul lavoro, licenziamenti. In fondo in quasi 30 anni di politica non ha fatto nulla per tutelare chi lavora e si spacca la schiena ogni giorno, i ragazzi precari che non hanno la fortuna di aver fatto carriera in politica. È vergognoso che questo messaggio di astensione rispetto a una scelta importante arrivi da un Presidente del Consiglio il 2 giugno, giorno simbolo di un Paese che sceglie la Repubblica, della prima volta per le donne ammesse a un voto nazionale”.
La polemica investe dunque non solo il merito dei quesiti referendari — che riguardano temi sociali cari a gran parte delle opposizioni — ma anche il significato politico e istituzionale dell’atteggiamento tenuto dai vertici dello Stato. Già nei giorni scorsi, il presidente del Senato Ignazio La Russa aveva espresso riserve sul referendum, seguito a ruota da vari ministri del governo. Ora, con l’uscita della premier, secondo l’opposizione si compone un disegno organico per depotenziare uno strumento di democrazia diretta previsto dalla Costituzione.