Si può credere in Dio, patria e famiglia, e allo stesso tempo pretendere la stabilità del posto di lavoro e la difesa dei propri diritti. Andare a votare “sì” almeno a 4 dei 5 referendum che si terranno l’8 e il 9 giugno è un diritto che dovrebbero essere felici di esercitare soprattutto gli elettori di Fratelli d’Italia, sedicente destra sociale.
Tanto più che 3 dei 5 quesiti vogliono abolire le principali norme del Jobs Act, cioè di una pessima legge partorita nel 2014 dal PD di Matteo Renzi. Da questo punto di vista, è paradossale che il principale partito di governo auspichi il mancato raggiungimento del quorum. Insomma, i primi difensori del Jobs Act di Renzi sono il presidente del senato Ignazio La Russa e la stessa Presidente del consiglio Giorgia Meloni, che hanno indirettamente invitato i cittadini ad astenersi.
Il referendum è l’unico istituto di democrazia diretta costituzionalmente garantito: da Fratelli d’Italia, la cui propaganda è essenzialmente fondata sulla retorica populista dell’identificazione con il popolo, ci si aspetterebbe un’entusiastica esortazione ad una massiccia partecipazione al voto. E invece, incalzata sul tema, Meloni si è limitata ad una frase sibillina circa il “recarsi al seggio senza ritirare la scheda”. Qualunque cosa significhi.
I milioni di elettori che votano a destra dovrebbero convincersi che questi referendum non hanno nulla di ideologico, né di partitico, perché alle classi dirigenti (di qualsiasi colore) non interessa granché dei licenziamenti ingiusti, dei contratti brevi, della responsabilità delle ditte che delegano gli appalti. Nessuno di lor signori, dei loro parenti, o dei loro amici verrà mai licenziato ingiustamente, né sarà costretto ad accettare un contratto di tre mesi, e tantomeno lavorerà in nero per una ditta che riceve un subappalto. Queste sono questioni che riguardano i cittadini comuni, quelli che per vivere devono lavorare, quelli che non possono progettare il loro futuro perché non hanno un lavoro stabile e, se lo hanno, sono comunque sempre sotto ricatto. Riguardano le donne che, se fanno figli, rischiano il licenziamento, i ragazzi sfruttati per pochi mesi e poi lasciati per strada senza motivo, tutti i lavoratori la cui vita viene messa in pericolo senza alcuna forma di tutela legale.
Se i referendum avranno successo, se ne avvantaggeranno tutti i lavoratori dipendenti, di qualsiasi appartenenza politica. Si può amare follemente Giorgia Meloni e contemporaneamente ritenere che chi viene licenziato ingiustamente debba essere reintegrato nel posto di lavoro o indennizzato senza che vi siano dei limiti legali al risarcimento stabilito dal giudice. Si può stimare indefessamente Ignazio La Russa e allo stesso tempo pensare che i datori di lavoro debbano essere costretti a motivare la scelta di proporre contratti di qualche mese. O ancora, che le ditte appaltanti debbano essere penalmente responsabili della sicurezza e delle violazioni dei diritti dei lavoratori assunti (o non assunti) dalle ditte subappaltanti.
D’altronde, a suo tempo, quando era all’opposizione, Giorgia Meloni si scagliò contro il Jobs Act in difesa dei lavoratori: perché oggi che è capo del governo nicchia sull’astensione? I suoi elettori dovrebbero porsi questa domanda e considerare l’ipotesi che – quando si è al governo – il transito da posizioni che difendono le classi sociali fragili verso posizioni che proteggono gli interessi delle lobby e dei ceti privilegiati è quasi fatale. Esattamente come accadde a Renzi nel 2014.